Immunodeficienza con iper-IgM legata al cromosoma X: editing genetico al servizio della terapia

La tecnologia “taglia e cuci” del Dna può consentire di correggere il difetto alla base della rara malattia.

Una delle prime applicazioni cliniche dell’editing genetico – la tecnologia di “taglia e cuci” del Dna oggetto del premio Nobel per la chimica 2020 – potrebbe a breve vedere la luce per il trattamento di una grave malattia genetica rara, l’immunodeficienza con iper-IgM legata al cromosoma X (X-HIGM o HIGM di tipo 1).

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Lo annuncia con uno studio pubblicato sulla rivista EMBO Molecular Medicine un gruppo di ricerca dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, coordinato da Luigi Naldini, direttore dell’Istituto e professore di Istologia e di Terapia genica e cellulare presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Pietro Genovese, capo progetto nel gruppo di Naldini, che dopo questo studio è stato reclutato come Assistant Professor alla Harvard Medical School di Boston. I risultati degli esperimenti condotti in laboratorio aprono la strada alla sperimentazione clinica della correzione mirata con editing genetico del difetto responsabile della malattia, grazie alla collaborazione con la spinoff Genespire.

La X-HIGM è una rara immunodeficienza potenzialmente letale causata da mutazioni del gene CD40LG, che codifica per un recettore localizzato sulla superficie di un gruppo specifico di cellule T del sistema immunitario. “Si tratta di un recettore fondamentale per permettere a queste cellule di interagire, attivandole, con altre cellule del sistema immunitario coinvolte nella produzione di anticorpi (cellule B) o nella difesa diretta contro agenti estranei (macrofagi)”, spiega Valentina Vavassori, prima firmataria dello studio insieme a Elisabetta Mercuri.

Di conseguenza i pazienti con questa immunodeficienza tendono a sviluppare infezioni opportunistiche ricorrenti, sia batteriche sia virali, e hanno un maggior rischio di sviluppare tumori e malattie autoimmuni, con una speranza di vita media in genere inferiore ai 30 anni. Ad oggi la prima linea di trattamento è rappresentata dalla terapia sostitutiva con somministrazione periodica di anticorpi, mentre l’unica terapia risolutiva consiste nel trapianto di cellule staminali ematopoietiche da midollo o cordone ombelicale di un donatore compatibile. A causa delle infezioni ricorrenti dalle quali sono colpiti, tuttavia, anche il trapianto può rivelarsi particolarmente critico per questi pazienti, oltre a essere disponibile solo per chi ha un donatore compatibile e comportare il rischio della malattia del trapianto contro l’ospite.

Per questo motivo il gruppo di Naldini ha proposto un’alternativa terapeutica che potrebbe risultare più efficace rispetto alle precedenti, correggendo direttamente le cellule stesse del paziente. Una correzione non effettuata però con l’introduzione di una extra copia funzionale del gene con un vettore virale – come si fa nella terapia genica “convenzionale” – ma basata sulla tecnologia di gene editing chiamata Crispr-Cas9.

La criticità principale del trasferimento genico tradizionale sta nel fatto che per questa malattia non basta ripristinare la funzione del gene, ma bisogna anche fare in modo che sia regolato molto finemente per evitare il rischio di un’espressione superiore alla norma, che potrebbe portare allo sviluppo di leucemie e linfomi

. Per questo la scelta dei ricercatori è caduta sulla tecnologia del gene editing, che permette di correggere il gene difettoso esattamente là dove si trova, mantenendolo sotto il controllo dei suoi meccanismi regolatori fisiologici. “Grazie all’approccio con Crispr-Cas9 siamo riusciti a tagliare il Dna in un punto preciso del gene difettoso e a sostituirne la sequenza con quella corretta”, continua Pietro Genovese, sottolineando che il sistema permette di correggere il 95% circa delle mutazioni di CD40LG responsabili della malattia.

La sperimentazione è stata condotta con cellule di pazienti e con modelli animali della malattia: in entrambi i casi i ricercatori hanno valutato gli effetti del gene editing sia in cellule staminali ematopoietiche, i progenitori di tutte le cellule del sangue, sia in cellule T, cellule mature più facilmente manipolabili e che possono offrire un maggior profilo di sicurezza. “Abbiamo osservato che con entrambi i tipi di cellule si ottiene il ripristino della produzione di anticorpi e, nei modelli animali, la protezione nei confronti di un’infezione clinicamente rilevante – conclude Naldini –. Non solo. Abbiamo anche osservato che nel caso di un’infezione già in corso, le cellule T portano a una reazione immunitaria efficace anche in assenza di una procedura (condizionamento) che viene normalmente utilizzata per preparare il paziente a ricevere un trapianto, ma che per i pazienti con X-HIGM può rivelarsi più critico che in altre condizioni”.

Secondo i ricercatori, queste osservazioni indicano che le cellule T editate del paziente potrebbero fornire un immediato e sostanziale beneficio ai pazienti con immunodeficienza con iper-IgM, la cui durabilità dovrà essere valutata dalla sperimentazione clinica e che comunque potrebbero funzionare come terapia-ponte rispetto al trapianto di staminali ematopoietiche da donatore. Il lavoro fornisce le basi sperimentali e il razionale scientifico per procedere verso la sperimentazione clinica della terapia genica basata su gene editing, che sarà effettuata in collaborazione con la startup Genespire, fondata a marzo 2020 dai ricercatori SR-Tiget con Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele e finanziata da Sofinnova Partners. Lo stesso approccio con gene editing potrebbe poi essere utilizzato per altre malattie che richiedono una regolazione molto fine dei geni coinvolti, come altre immunodeficienze primitive.

Redazione Nurse Times

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