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Trento, avrebbe negato la visita a un bimbo in gravi condizioni perché “occupata e stanca”: medico a processo

Rinviata a giudizio per una presunta omissione che avrebbe provocato il ritardo nella diagnosi e, quindi, anche nella cura della sindrome di Seu per un piccolo paziente. E’ la sorte toccata a una dirigente medico di Pediatria dell’ospedale Santa Chiara di Trento, che a giugno 2017 avrebbe negato, perché “occupata e stanca”, un consulto a una collega che seguiva un bambino di quattro anni. Quest’ultimo si era sentito male dopo aver mangiato del formaggio prodotto con latte crudo, che si scoprirà poi essere stato contaminato dal batterio dell’escherichia coli.

Il papà del bambino, che è parte offesa, aveva presentato opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Trento. In aula, poi, il genitore potrebbe costituirsi parte civile. Le accuse formalizzate dalla stessa Procura, e respinte con forza dalla dottoressa, sono quelle di rifiuto di atti d’ufficio e di lesioni colpose gravissime in ambito medico.

Ma riassumiamo la vicenda. Nel 2017 la Procura di Trento aveva iscritto nel registro degli indagati cinque persone dopo che il bimbo era finito in stato vegetativo, come è tutt’ora, dopo aver mangiato del formaggio Due Laghi acquistato dal caseificio sociale di Coredo. Il procedimento era stato aperto non solo per l’allora legale rappresentate del caseificio e per il casaro responsabile del piano di controllo – i cui procedimenti sono già stati definiti -, ma per tre medici, tutte donne.

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All’epoca dei fatti una delle tre dottoresse era in servizio all’ospedale di Cles (Trento), le altre due al Santa Chiara. Per tutte il pm Maria aveva chiesto l’archiviazione e la famiglia del piccolo paziente aveva presentato opposizione per una sola posizione, ossia quella del dirigente medico che il 5 giugno si sarebbe appunto rifiutata di visitare il bambino arrivato in ambulanza da Cles, nonostante la richiesta della collega di reparto.

Secondo il papà del piccolo, “rispose alla collega che aveva da fare ed era stanca”, non comprendendo la necessità di intervenire con urgenza. Il ritardo nella diagnosi, arrivata solo tre giorni dopo, avrebbe comportato l’impossibilità di porre tempestivamente in essere le pratiche cliniche che potevano ridurre le conseguenze della malattia, causandone invece un aggravamento, con danni permanenti.

In un primo momento la Procura di Trento aveva chiesto l’archiviazione, ma in seguito all’opposizione proposta dal padre del bambino il giudice le aveva ordinato l’imputazione coatta della dottoressa per la presunta omissione e per le lesioni. Ora si attende il processo, che comincerà tra qualche settimana.

Redazione Nurse Times

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