Riceviamo e pubblichiamo un'interessante riflessione riguardante il processo di professionalizzazione dell'infermiere realizzato dal Dott. Raffaele Varvara, infermiere
Sono un giovane infermiere, esercito la professione da due anni e frequento l’ultimo anno del corso di Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Osteriche. Vivo il paradosso di un ragazzo di 26 anni che esce dall’università come dottore in infermieristica ma la realtà in cui la sua competenza professionale viene richiesta è tutt’altro dal riconoscere l’ infermiere come da titolo accademico.
Ho cercato di analizzare questa situazione, che gli psicologi chiamano dissonanza cognitiva, ponendomi una serie di interrogativi.
Per “cultura professionale” si intende quel patrimonio di conoscenze, valori, norme e simboli proprie della professione.
Per “sanzioni della comunità” si intende il riconoscimento della propria utilità sociale conferite in capo esclusivo a quel determinato professionista dopo il raggiungimento del titolo accademico e l’abilitazione dello Stato.
Come mai la professione infermieristica, pur garantendo il diritto fondamentale alla salute 365 giorni l’ anno per 24h su 24 universalmente per tutti i cittadini di questo pianeta mettendo sempre al primo posto i loro bisogni, fatica a riconoscere la propria utilità sociale?
In altre parole: perché diamo tanto ma riceviamo così poco?
Per giunta assistiamo ad un vero e proprio processo di screditamento della figura professionale dell’ infermiere tutti i giorni su tv e giornali. Dunque perché nel mondo dei media aleggia così tanta confusione sulla professione infermieristica?
Forse il mondo dei media non è poi così lontano dalla realtà e la confusione di giornalisti e autori è la confusione dei cittadini: è altamente infrequente chiedere ad un cittadino: “Cosa fa l’infermiere?” ed ottenere una risposta accettabile. Altro interrogativo: “Come posso contribuire, nel mio piccolo, a far comprendere l’importanza e il prestigio della professione che rappresento?”
Per analizzare i quesiti è fondamentale fare uno zoom più largo sul momento storico che l’infermieristica sta attraversando. Attualmente la professione si trova chiusa in una morsa tra il recente passato fatto di evoluzioni normative cui si fatica ancor’oggi a dar seguito, il presente ricco di sterili dibattiti sulle nuove competenze e il futuro che sfida la nostra professione a trovare un ruolo da veri protagonisti nel panorama sanitario a fronte dei nuovi e sempre più complessi bisogni di salute.
Per sbloccare questa situazione di stallo urge mettere in moto una nuova cultura che parta da ognuno di noi per poi estendersi a macchia d’olio verso coloro i quali organizzano i sistemi sanitari analizzando la domanda assistenziale ovvero verso i cittadini che devono riconoscere l’ infermiere solo e unicamente come professionista dell’ assistenza.
La rivoluzione culturale deve partire dall’ interno della nostra classe professionale innanzitutto divenendo consapevoli dell’ estrema importanza del nostro ruolo e della nostra precipua mission. Tra i valori di una professione secondo Greenwood rientra il riconoscimento della dignità (stima – importanza) del servizio che il gruppo professionale estende alla comunità.
Seppur il confronto filosofico-generazionale può essere utile per coltivare il dubbio e il progresso, uno spaccato così profondo è deleterio per la ricerca di unità, forza e coesione professionale. Una pluralità così ampia di linee di condotta finisce per far perdere la consapevolezza del nostro stessoruolo.
Dunque il problema culturale è prima di tutto interno alla professione; si ricordi che ogni minuto con indosso la nostra divisa, ognuno di noi è determinante a difendere l’immagine e il prestigio della nostra professione.
Chiediamo riconoscimento sociale? Risulta difficile se l’ utenza ricorre impropriamente alla nostra competenza professionale. Ma non possono essere biasimati i poveri pazienti, chi può far comprendere la nostra vera identità professionale se non noi stessi?
Utilizzando tutti i canali della comunicazione perché se col verbale spieghiamo che cosa rappresentiamo ma ci atteggiamo da “ausiliari”, il non verbale parlerà per noi e non scalfirà, nell’ immaginario collettivo, l’idea dell’ infermiere di mezzo secolo fa. Certo la cronica carenza d’organico rappresenta un ostacolo in più verso il nostro obiettivo.
Sono lodevoli le campagne di informazione adottate dai collegi IPASVI ma vanno sostenute dalle azioni quotidiane dei singoli professionisti altrimenti l’autoreferenzialità premierà noi stessi. Non lamentiamoci se degli pseudo-giornalisti ci appellano come “paramedici” o “infermieri-badanti” poiché spetta solo a noi rinverdire questa tendenza.
I cambiamenti culturali sono i più difficili, i più lenti e i più sedimentati nel tempo soprattutto se, come in questo caso, investono più fronti. Dapprima il fronte interno per poi lavorare su un fronte esterno ovvero cittadini, dirigenti e politici. Chi analizza i bisogni assistenziali dei servizi sanitari non sembra aver chiaro le nostre potenzialità. Sono molto più frequenti, infatti, i casi di demansionamento che di valorizzazione professionale. Il 30 novembre è stata la presidente dell’ FNC IPASVI dott.ssa Mangiacavalli a ricordare, in un’audizione al Senato, come possono essere impiegate al meglio le risorse infermieristiche all’ interno della programmazione dei nuovi LEA.
In conclusione, mentre tra i banchi accademici si declinano i 5 attributi di Greenwood adattandoli alla professione infermieristica, la realtà dimostra che siamo solo agli inizi di un percorso professionalizzante ancora tutto in divenire: che l’ università e la realtà professionale vadano a due velocità diverse?
Dott. Raffaele Varvara – Infermiere
Simone Gussoni
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