Sviluppare competenze trasversali: le Non Tecnical Skills e la Formazione – intervento

Il seguente elaborato si propone di presentare, alcune tecniche di derivazione andragogica e manageriale allo scopo di implementare le competenze non tecniche per garantire livelli qualitativi crescenti, di servizi forniti all’utente esterno

Abstract

Il seguente elaborato si propone di presentare, alcune tecniche di derivazione andragogica e manageriale allo scopo di implementare le competenze non tecniche per garantire livelli qualitativi crescenti, di servizi forniti all’utente esterno.

Ed intenzionalmente favorire come valore aggiunto, la crescita dei livelli motivazionali degli utenti interni, primi fra tutti ma non solo, gli Infermieri.

L’obiettivo di presentare e aumentare le Non Technical Skills, in ambito socio sanitario, nell’intento del presente lavoro, deve essere perseguito dall’utilizzo di strategie formative di natura andragogica, intese come Scienza della Formazione degli adulti, tramite la messa a punto della formazione – intervento.

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Come vedremo questa strategia permette di costruire competenze non tecniche avanzate, tramite un progetto formativo sul campo, favorendo un forte collegamento della teoria con la prassi.

Le Non Technical Skills (Abilità Non Tecniche o NTS)

Con questo termine si fa riferimento ad “abilità cognitive, comportamentali e interpersonali che non sono specifiche dell’expertise tecnica di una professione, ma sono ugualmente importanti ai fini della riuscita delle pratiche operative nel massimo della sicurezza” .

Le Non-Technical Skills (NTS) sono complementari alle competenze di carattere tecnico ed in grado di contribuire all’attivazione di performance maggiormente efficaci e sicure.

Esse rappresentano un insieme di competenze professionali non tecniche che non nascono in ambito sanitario, bensì in ambito aeronautico.

Nel settore dell’aviazione, infatti, l’individuazione delle Non Technical Skills più adatte a proteggere specialisti ed organizzazioni dalla manifestazione degli errori è stata inizialmente promossa attraverso la programmazione di percorsi per il “Crew Resource Management (CRM)”.

Essi hanno costituito e costituiscono tutt’ora una delle più efficaci declinazioni della formazione trasversale sui gruppi di lavoro, basate sulla definizione di modelli mentali e comportamentali condivisi.

In letteratura vengono individuate sette Non – Technical Skills, che possono essere così riassunte:

  • consapevolezza situazionale: capacità di raccogliere le informazioni e di interpretarle correttamente; questa competenza, caratterizzata inoltre dalla capacità di anticipare i possibili scenari futuri, è un prerequisito indispensabile per la sicurezza in ambienti complessi e dinamici e, non a caso, è indicata come fattore causale in numerosi incidenti, specie nell’aviazione e nell’aeronautica;
  • decision-making: capacità di adeguata definizione dei problemi, di considerare le diverse opzioni e di selezionare ed implementare queste ultime;
  • comunicazione: capacità che comporta l’invio e lo scambio di informazioni chiare e concise, la ricezione di tali informazioni, l’ascolto e l’identificazione di quelle che possono essere le “barriere” del processo comunicativo;
  • teamwork: si caratterizza per la capacità di supportare i collaboratori/colleghi, di risolvere i possibili conflitti, di scambiare informazioni e di coordinare le diverse attività;
  • leadership: fa riferimento ad un ottimale utilizzo dell’autorità, alla pianificazione e definizione delle priorità, alla gestione dei carichi di lavoro e delle risorse;
  • gestione dello stress: capacità di identificare correttamente gli eventuali sintomi dello stress, di riconoscere i suoi effetti e di implementare le più efficaci strategie di coping;
  • capacità di fronteggiare la fatica: in maniera correlata alla competenza precedente, prevede l’identificazione dei sintomi della fatica, il riconoscimento dei sintomi di quest’ultima e l’implementazione di strategie di coping.

La mancanza di competenze non tecniche aumenta quindi la probabilità che si verifichi un errore, il quale a sua volta accresce la probabilità che si generi un evento avverso.

La presenza di buone abilità non tecniche, al contrario, può ridurre di molto tali probabilità e rappresentare un aspetto in grado di rivelarsi cruciale nell’ottimizzazione delle pratiche lavorative e nella prevenzione di incidenti ed infortuni.

Un approccio innovativo alla prevenzione dei rischi e di conseguenza agli incidenti e infortuni sul lavoro dovrebbe fare riferimento all’opportunità di formare i lavoratori relativamente alle competenze non tecniche, competenze che vengono quotidianamente utilizzate e agite troppo spesso inconsapevolmente da ciascuno di noi.

Frequentemente, tali competenze non sono chiaramente esplicitate e vengono trattate tacitamente e di conseguenza tramandate in modo informale da una generazione di lavoratori all’altra.

Nelle organizzazioni moderne, al lavoratore è richiesto sempre più un impegno di tipo cognitivo e decisionale, risulta chiaro che fare affidamento alle proprie esperienze e competenze tecniche non sia sufficiente.

Negli ultimi due decenni l’attenzione nei confronti delle non Technical Skills si sta diffondendo anche in ambito sanitario, ma l’inserimento di questi argomenti nei corsi di formazione istituzionali resta ancora piuttosto sporadica.

In Italia sono svariate le esperienze di eccellenza formativa su questi temi, che hanno consentito lo sviluppo di nuove tassonomie di NTS come:

  • Gestione del compito,
  • Lavoro in gruppo,
  • Consapevolezza della situazione,
  • Assunzione delle decisioni,
  • Leadership,
  • Comunicazione efficace.

L’obiettivo di ogni organizzazione che voglia puntare sulla cultura della sicurezza, e del miglioramento della qualità, dovrebbe essere – tra l’altro – quello di sviluppare programmi di formazione mirati per attività lavorativa in materia di Non technical skills.

Non una formazione puramente teorica, ex cathedra, “subita” in qualche modo, che certo può dare degli spunti su cui riflettere, ma un’esperienza vissuta nel vero senso della parola, che dia la possibilità di “sperimentarsi nel fare esperienza”.

La Formazione – Intervento

La formazione – intervento è un processo di apprendimento che porta un gruppo di persone a condividere presupposti, contenuti, modalità e soluzioni di cambiamento e movimento in un’organizzazione.

Il cambiamento è finalizzato a un miglioramento e il movimento è condizione del suo perpetuarsi e del suo sviluppo.

Crozier e Friedberg affermano: “chiamiamo apprendimento collettivo il processo attraverso il quale un insieme di attori, partecipi di un sistema di azione, apprendono – vale a dire inventano e fissano – nuovi modelli di gioco, con le loro componenti affettive, cognitive e relazionali. Tali giochi o, se si vuole, questa nuova prassi sociale, esprimono e inducono al contempo una nuova strutturazione del campo, il che significa non solo altri metodi, ma anche altri problemi e altri risultati, nonché un sistema d’azione regolantesi altrimenti” .

Con la formazione – intervento prende cioè il via un processo con cui un gruppo sempre più largo, mettendo in gioco le proprie competenze, valori e anche pregiudizi e affrontando assieme un problema complesso, finisce per condividere le modalità utilizzate per giungere a soluzioni progettuali nuove, oltre che le soluzioni stesse.
Queste modalità servono anche successivamente per risolvere assieme problemi diversi.

È l’imparare a imparare di Argyris e Schon, nella concezione in cui: “il sistema sociale è inteso come processo di azioni e di decisioni dotate di senso, orientate a scopi e valori, a risultati attesi… la formazione non è separata dal processo ma è essa stessa processo e fonte dell’azione organizzativa”.

Essa presuppone che in un gruppo ci siano culture, competenze e punti di vista diversi che vanno tutti giocati perché costituiscono la ricchezza e la motivazione di base del suo uso. Proprio per questo l’azione formativa usa il lavoro di gruppo come modalità di esplicitazione, negoziazione e accordo sui requisiti progettuali del cambiamento.

Crozier e Friedberg, continuando, affermano che: “Per poter elaborare, conservare e fissare un modello di gioco nuovo, o perché gli attori acquisiscano la capacità collettive che la loro adozione del nuovo gioco presuppone ma altresì determina, bisogna infrangere non soltanto gli interessi, dei rapporti di potere, avvero delle abitudini, ma anche delle difese affettive e dei modelli intellettuali”.

Un processo di formazione – intervento si sviluppa quando si mette in moto un meccanismo di coinvolgimento collettivo, più o meno ampio, che consenta di confrontare i punti di partenza diversi degli attori sociali in gioco e di costruire un percorso di analisi e progettazione collettiva che faccia tesoro del contributo di ciascuno come apporto individuale a una causa generale.

La formazione – intervento è un processo particolarmente indicato in situazioni d’incertezza circa il corpo di teorie a cui far riferimento o alla struttura di potere che è preposta al cambiamento.

In questi casi infatti il percorso circolare e ripetitivo del processo di apprendimento e l’uso delle energie del collettivo consentono di verificare le teorie e di proteggere il processo di cambiamento e la struttura che lo propone.

Il processo ha una motivazione di partenza che è solitamente il bisogno di affrontare e risolvere un problema complesso, la cui soluzione non è abituale, né nota.

L’elaborazione collettiva consente di maturare dei convincimenti e delle soluzioni scaturite dal confronto con le esperienze che i partecipanti portano in gioco o che, per l’occasione, si procurano.

Ciò porta a rielaborare le esigenze di partenza e a rivedere le condizioni che le hanno prodotte, arricchendole di significato e di contenuti.

Questo risultato sollecita però una ridefinizione dell’obiettivo atteso, il quale non può essere prodotto mettendo in gioco solo le esperienze preesistenti, perché richiede contributi aggiuntivi di teorie e apporti culturali e scientifici diversi e a volte esterni.

La sommatoria di nuovi elementi e capacità interpretative e la conseguente elaborazione di idee arricchisco ulteriormente le esperienze e il loro uso per produrre il risultato atteso.

Il processo così continua e produce livelli crescenti di maturazione sia di risultati che di conoscenza ed esperienza, e circuiti crescenti di coinvolgimento collettivo.

Un tale approccio ci colloca nel campo dei modelli sequenziali. Modelli come quello di Kolb, citato da G.P. Quaglino, nel suo libro “fare formazione”, affermano: “tende a postulare un modello di apprendimento definibile come di tipo esperienziale, una sequenza che presiede cioè al conseguimento di sapere puntando innanzi tutto su un processo che fa perno sull’esperienza concreta del soggetto, sul fare, sull’agire: con ovvio riferimento alla situazione di lavoro, che a noi interessa in questo contesto”.

Della consapevolezza dell’importanza di questo circuito: prassi – teoria – prassi, dobbiamo essere grati al precursore dell’action research, colui che fu chiamato non a caso, in una biografia scritta da Marrow, The practical Theorist: Kurt Lewin.

Tutta la sua opera ha infatti inteso dimostrare la necessità che la ricerca sociale sia strettamente legata ai problemi concreti della vita reale.

Collegamento che consente da una parte di intervenire responsabilmente, come “agente di cambiamento”, nella risoluzione dei problemi e nella trasformazione della vita reale e dall’altra di rielaborare nuove teorie e nuove concettualizzazioni.

In tale approccio si possono individuare alcuni vantaggi. Un primo vantaggio è quello di poter modellare l’intensità da dare al processo di cambiamento in relazione alla capacità di assorbimento e interiorizzazione da parte delle persone coinvolte di contenuti culturali che ne giustificano la realizzazione, si pensi a titolo di esempio, all’acquisizione in ambito infermieristico, di strategie di intervento assistenziale basate sul’EBN.

Inoltre, le persone sono indotte a produrre elaborazioni significativamente utili mettendo in gioco, in una situazione senza rete di protezione, il patrimonio delle loro conoscenze e il risultato del loro apprendimento.

In sostanza si può dire che le fasi di acquisizione, elaborazione, applicazione, realizzazione e controllo, anziché essere poste in serie, sono collocate in parallelo, nello stesso spazio processuale. Uno spazio controllato dallo stesso gruppo e pertanto molto più impegnativo.

Qui non ci sono più attori che intervengono in momenti diversi fornendo uno specifico contributo, l’uno all’insaputa dell’altro, per cui solo il coordinatore dell’intervento è pienamente consapevole e responsabile dei risultati del lavoro collettivo. Nella formazione – intervento tutto viene giocato assieme.

Non c’è un tempo per apprendere e un tempo per esprimere una progettualità o un comportamento che costituisca la risposta di ciò che si è appreso. Il processo didattico che la formazione – intervento sviluppa ha un riscontro immediato nella sua efficacia.
Non ci troviamo nella situazione in cui il docente non riesce a godere del piacere di verificare il risultato del suo insegnamento in quanto esso viene misurato fuori dall’aula a da altri attori.

Il processo qui consente di:

  • Rendere dialettico il confronto tra gli individui;
  • Sperimentare l’applicabilità di alcuni approcci e l’uso di nuove metodologie;
  • Motivare l’approfondimento personale dei singoli;
  • Acquisire conoscenze e competenze lungo l’itinerario;
  • Confrontare l’efficacia dei percorsi tramite i risultati acquisiti;
  • Arricchire le ipotesi iniziali;
  • Trasferire le convinzioni maturate.

Alle persone coinvolte, questo processo consente di riconoscersi in un linguaggio e in alcuni riferimenti teorici comuni, come può essere l’EBN, che diventano poi patrimonio di un collettivo sempre più ampio. Esso consente di sentirsi orgogliosi del possesso di un corpo di conoscenze e convinzioni che diventa poi base distintiva di una propria identità culturale di riferimento.

Naturalmente questo processo implica l’inglobamento delle persone che hanno promosso il cambiamento iniziale (i promotori), un progressivo cambio di ruoli (tra docenti e discenti, ad esempio) e alla fine, una appropriazione collettiva dei contenuti e dei meriti dei risultati acquisiti con l’intervento.

La formazione d’aula può essere usata all’interno di un processo di formazione – intervento solo quando il gruppo o uno dei partecipanti sente la necessità di approfondire la conoscenza di un particolare che consente di procedere con maggiore competenza lungo il percorso progettuale.

Nella formazione d’aula il formatore rileva il bisogno di conoscenza di un determinato gruppo di persone, cerca sul mercato una persona esperta che è in grado di trasferire quelle conoscenza, organizza un contesto confortevole dove possa avvenire tale trasferimento e verifica che la docenza sia efficace e l’apprendimento dei discenti sia ottimale.

Nei casi più evoluti il formatore sta in aula e gestisce un processo di riflessione collettiva sulla scorta di una sollecitazione tematica e l’uso di una strumentazione didattica attiva che consente ai partecipanti di mettere in gioco le proprie concezioni e le proprie esperienze.

Nelle situazioni migliori, il formatore arriva a misurare gli effetti di tale azione, prima al termine del programma formativo e poi, attraverso la struttura gerarchica, nell’ambito del contesto dove la persona coinvolta dall’azione formativa opera quotidianamente.

Nella formazione d’aula i discenti sono in una condizione strutturalmente passiva anche se i formatori fanno del loro meglio per animare un dibattito tra i partecipanti e simulare delle condizioni di lavoro in cui esercitarci utilizzando le nozioni trasmesse.

Nell’approccio che si sta proponendo, la formazione – intervento, le condizioni che si dibattono sono quelle reali e sono le stesse su cui le persone esercitano le loro capacità di cambiamento. Saranno le persone a esprimere eventuali necessità di conoscenza e quindi di formazione per progettare insieme le migliori soluzioni di cambiamento.
Il formatore nel primo caso deve progettare un seminario d’apprendimento, mentre nel secondo deve alimentare un processo di autoapprendimento.

Nella formazione d’aula, ci si trova nella condizione in cui l’organizzazione è statica e bisogna adeguare il comportamento degli individui ad essa. Nel secondo caso è l’organizzazione da cambiare e bisogna sollecitare i comportamenti creativi e l’autoformazione collettiva per farlo.

Nel primo caso i contributi didattici sono tutti predisposti a monte. Nel secondo caso, essi sono per lo più ricercati mano a mano che il gruppo coinvolto ne sente la necessità e il conduttore ne riconosce l’opportunità e ne conviene la possibilità con i suoi componenti.

Quindi la formazione – intervento è un’occasione per utilizzare un processo formativo allo scopo di aumentare le Non Tecnical Skills nei professionisti dell’assistenza, ma anche un modo di fare della formazione che permette contestualmente lo sviluppo di un processo di cambiamento organizzativo.

In ogni caso si tratta di mettere in gioco la rivisitazione dell’esperienza, così come è andata costituendosi lungo la vita professionale.

“Ogni intervento diviene reale momento di cambiamento sociale se si pone non tanto, o non soltanto, come momento di applicazione di nuove soluzioni di azione sociale bensì piuttosto, preliminarmente e contemporaneamente, come momento di rielaborazione delle passate esperienze in merito alle soluzioni adottate e ai risultati della loro applicazione: cioè come momento di riapprendimento delle conoscenze accumulate sella base dell’esperienza” .

Conclusioni

Gli elementi presentati sono fonte di innumerevoli riflessioni, che si possono fare in ambito Infermieristico. Fondamentale è pensare ad un modo di fare formazione sul campo, che finalmente perda quell’elemento di passività che viene sovente propinato in tutte le salse, agli operatori sanitari.

Il mondo del sapere, specie andragogico e manageriale, ci offre molti strumenti per edificare progetti di formazione, che non siano staccati dal mondo lavorativo, coinvolgono i destinatari dell’azione formativa in modo gratificante, non creano quella dicotomia profonda tra teoria e prassi, facciano innamorare della conoscenza i destinatari dell’azione formativa, come può essere l’approccio proposto con la formazione – intervento.

Tale approccio, non ha ceto la pretesa di essere l’unico utile alla crescita delle competenze infermieristiche non tecniche, ma fa parte di tutta quella serie di strategie di formazione attiva, che credo sia quella strategicamente meglio percorribile all’interno delle organizzazioni complesse, come sono quelle socio sanitarie, in cui operano professionisti dell’assistenza infermieristica sempre più disposti alla crescita del proprio bagaglio culturale ed esperienziale. Questo al fine di assolvere al meglio il loro mandato professionale, deontologico e istituzionale: l’Assistenza Infermieristica.

 

Cosimo Della Pietà

 

Bibliografia

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Redazione Nurse Times

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