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Il consenso informato (legge 219/2017) e le professioni sanitarie non mediche: stato dell’arte e prospettive future

Il consenso informato in ambito sanitario è relativamente recente nel nostro Paese, il suo innesto nella tradizione medica è stato, in taluni casi lo è ancora, alquanto difficoltoso per la resistenza determinata da un retaggio cosiddetto “ippocratico-paternalistico”, mentre nella pratica infermieristica non è quasi per nulla considerato tranne che in alcune realtà.

L’acquisizione del consenso informato mira appunto a superare tale concezione medica di tipo paternalistico; concezione che si realizzava, e in alcuni casi si reitera ancora, attraverso la “supremazia” medica, consistente nel non tenere conto della volontà del paziente, comportamento un tempo giustificato dal fatto che il medico si trovava a decidere, come un buon padre di famiglia, nell’interesse supposto del paziente.

La scarsa o assente considerazione del consenso informato nell’esercizio della professione infermieristica, come anche nell’esercizio delle altre professioni sanitarie non mediche, è deducibile dalle innumerevoli pubblicazioni che si possono trovare in rete, alcune redatte da infermieri, nelle quali si riportano le implicazioni giudiziarie alle quali i medici possono andare incontro, non considerando che situazioni simili possono realizzarsi anche nell’esecuzione di prestazioni prettamente infermieristiche, come ad esempio nell’inserimento di un catetere vescicale nonostante il reiterato dissenso manifestato del paziente – Suprema Corte di Cassazione sez. V Penale, sentenza 24 settembre 2015, n. 38914.

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La responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie non mediche in ordine al consenso informato è determinata dall’evoluzione giuridica e professionale iniziata negli anni novanta ma è diventata ancor più incisiva con l’art. 1, comma 2, legge 22 dicembre 2017, n. 219, in cui è previsto che gli esercenti una professione sanitaria facenti parte dell’equipe sanitaria, contribuiscono, in base alle rispettive competenze, alla relazione di cura; ne deriva che per quel che concerne le prestazioni di propria competenza saranno responsabili dell’acquisizione del consenso e della preventiva informazione. Allo stesso tempo è di chiara evidenza che, le informazioni fornite al paziente dall’equipe sanitaria sono solo integrative e non sostitutive di quelle dovute dal professionista sanitario che effettua direttamente la prestazione.

Quindi, per maggiore chiarezza, è il professionista sanitario che espleta la prestazione ad essere obbligato all’acquisizione del consenso previa adeguata ed esaustiva informazione.

Negli ultimi anni la giurisprudenza di merito e di legittimità ha adottato uno standard di notevole rigore nel valutare la responsabilità medica e infermieristica, introducendo novità in merito al consenso informato; ciò porta necessariamente a dover prendere atto che il principio del consenso informato è oramai un “principio immanente” nel nostro ordinamento e che gli interventi extra-consensuali non sono più possibili, tranne che in specifiche situazioni come ad esempio in caso di emergenza o urgenza in cui non è possibile recepire, per le condizioni cliniche e le circostanze, la volontà del paziente, ex art.1, comma 7, legge 219/2017.

È opportuno considerare che il nostro ordinamento giuridico, retto dalla Costituzione, prevede:

  • il principio personalistico, che tutela i diritti fondamentali, ex art. 2 della Costituzione, rendendoli indisponibili, intrasmissibili, irrinunciabili da parte dei loro titolari e imprescrittibili;
  • la possibilità di scelta, principio della volontarietà, al trattamento sanitario, ex art. 32, comma 2, della Costituzione, il quale sancisce che nessun individuo può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, la quale disposizione comunque non può superare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e l’inviolabilità della libertà;
  • l’inviolabilità della libertà personale, ex art. 13 della Cost., se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei solo casi e modi previsti dalla legge.

Definibile come la libera manifestazione della volontà che l’individuo esprime in ordine ad un accertamento diagnostico e/o ad un trattamento sanitario a cui dev’essere sottoposto; tale manifestazione di volontà dev’essere preceduta da adeguate e comprensibili informazioni – che siano oneste, veritiere e complete – riguardo la diagnosi, la prognosi, le modalità di esecuzione, i possibili benefici e i rischi ragionevolmente prevedibili, l’eventuale esistenza di valide alternative, nonché delle conseguenze all’eventuale rifiuto/rinuncia degli accertamenti diagnostici e del trattamento sanitario proposti – ex legge 22 dicembre 2017, n. 219.

In ambito internazionale si inizia a parlare di consenso informato (informed consent) in seguito a una sentenza della Corte d’Appello della California inerente al caso Salgo v. Leland Stanford Jr., University, Borad of Trustees, del 1957, in cui Martin Salgo citò in giudizio gli amministratori dell’Università di Stanford e il medico, dott. F. Gebode,  per negligenza poiché i convenuti non avevano informato il ricorrente e i suoi familiari dei dettagli e dei rischi associati a un’operazione di aortogramma, che lasciò paralizzato il ricorrente agli arti inferiori in modo permanente; sentenza che possiamo ritenere una pietra miliare che ha determinato l’affermarsi del consenso informato rivoluzionando il rapporto tra medico e paziente, dove vede finalmente quest’ultimo inserito nel processo decisionale.

Nel nostro Paese, nel 1990 la Corte Costituzionale – a seguito della richiesta di una ricorrente, presentata presso il Tribunale di Catania, di essere sottoposta ad accertamento tecnico sul proprio stato di salute in quanto affermava di aver patito danni fisici per la colposa condotta degli operatori sanitari – mediante la sentenza n. 471 ha riconosciuto espressamente che la libertà di cui all’articolo 13 Cost. comprende anche la libertà di ciascuno di disporre del proprio corpo, sempre nel rispetto di modalità compatibili con la dignità della figura umana. Creando in tal modo una stretta connessione tra il diritto alla salute e il diritto alla libertà di autodeterminazione, ex art. 13 Cost.

A distanza di circa dieci anni, con la sentenza della Corte di Cassazione n. 1950, del 25 luglio 1967, viene per la prima volta considerato il consenso informato relativamente a un caso di cecità in un occhio a seguito di un’angiografia cerebrale.

Nel 1978 mediante l’art. 33, della legge n.833, rubricato come “Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, viene sancito che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari.

Nel luglio del 1991 la Suprema Corte di Cassazione stabilisce che il consenso informato costituisce l’essenziale e imprescindibile legittimazione dell’atto medico, altrimenti passibile d’esser valutato come reato.

Mentre nel 1992 il Comitato nazionale di bioetica pubblica un documento dal titolo “Informazione e consenso all’atto medico” in cui viene precisato che “si ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente e a trasgredirle qualora fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto”.

Occorre fare riferimento alla sentenza della Cassazione Penale Sez. V, n. 5639/1992 (Caso Massimo), la quale destò molta attenzione nel mondo sanitario e giuridico in merito al consenso, nella quale fu condannato un chirurgo per il reato di omicidio preterintenzionale (art.584 c.p.) a seguito del decesso di una paziente avvenuto per le complicanze a seguito di un intervento chirurgico demolitivo, asportazione totale del retto, eseguito in assenza di necessità ed urgenza che giustificassero tale tipologia d’intervento e senza preventivamente notiziare e acquisire il consenso informato della paziente. La paziente aveva prestato il consenso solo per l’esecuzione di un intervento meno invasivo consistente nell’asportazione trans-anale di un adenoma villoso.

Quindi dottrina giuridica e i vari documenti prodotti dalle Commissioni di Bioetica, tra cui la Commissione Regionale di Bioetica – Regione Toscana 1994, concordano nel ritenere che il consenso informato costituisca il fondamento della liceità dell’atto medico e che come tale deve diventare prassi.

In seguito anche la deontologia svolge la sua parte.       
Dapprima il Codice di deontologia medica (FNOMCeO) del 2014, aggiornato nel 2020, che attraverso l’art. 35, rubricato come “Consenso e dissenso informato” stabilisce che “L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato.

Egli acquisisce, in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale, il consenso o il dissenso del paziente, nei casi previsti dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità o da esiti che incidano in modo rilevante sull’integrità psico-fisica. Il medico tiene in adeguata considerazione le opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che lo riguardano”.

Negli anni a seguire la deontologia infermieristica con il Codice FNOPI del 2019 (il quale sostituisce il precedente Codice Deontologico dell’Infermiere del 2009, nel quale era già previsto l’impegno dell’infermiere a fornire all’assistito tutte le informazioni di natura assistenziale necessarie per renderlo consapevole e aiutarlo in tal modo nelle scelte) si è occupata in vari articoli di informazione e consenso, tra cui:

  • l’art.13, rubricato come “Agire Competente, Consulenza e Condivisione delle Informazioni”, il quale recita “… . Partecipa al percorso di cura e si adopera affinché la persona assistita disponga delle informazioni condivise con l’equipe, necessarie ai suoi bisogni di vita e alla scelta consapevole dei percorsi di cura proposti.”;
  • l’art. 15 “Informazioni sullo stato di salute”;
  • l’art. 17 “…L’Infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato e con il suo libero  consenso, le persone di riferimento, per favorire l’adesione al percorso di cura e per valutare e attivare le risorse disponibili”;
  • l’art 33 rubricato come “Documentazione clinica” il quale prevede che “L’Infermiere è responsabile della redazione accurata della documentazione clinica di competenza, ponendo in risalto l’importanza della sua completezza e veridicità anche ai fini del consenso o diniego, consapevolmente espresso dalla persona assistita al trattamento infermieristico”;
  • mentre al Capo VII inerente alla libera professione, l’art. 40 “Contratto di cura”, prevede, per quanto concerne il consenso informato, che l’infermiere nel rispetto delle norme vigenti, con trasparenza e correttezza, formalizza con l’assistito uno specifico contratto di cura che ponga in evidenza l’adeguata e appropriata presa in carico dei bisogni assistenziali e quanto espresso dalla persona in termini di assenso/dissenso informato rispetto a quanto proposto. 

Così come anche: 

l’Associazione Italiana Fisioterapisti (AIFI), con il Codice Deontologico dei Fisioterapisti  del 2011, considera il rispetto dell’autonomia decisionale della persona, quale diritto fondamentale nella relazione di cura, e promossa attraverso l’informazione completa ed accurata, art 24 “Autonomia decisionale della persona”, nel quale è previsto “Il Fisioterapista rispetta e promuove l’autonomia decisionale della persona nel campo della salute quale diritto fondamentale della medesima ed espressione più autentica della solidarietà che sostiene la relazione di cura. Il Fisioterapista si impegna a mantenere il principio di lealtà comunicativa nella relazione di cura: fornisce informazioni complete ed accurate in relazione alla diagnosi, alla prognosi, alle prospettive e le eventuali alternative terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate, adeguando lo stile comunicativo alla capacità di comprendere della persona assistita.

Il Fisioterapista si impegna a fornire alla persona assistita un’efficace informazione necessaria per la costruzione del processo decisionale di cura, mettendo in essere le migliori condizioni (luoghi, tempi, modalità) affinché la persona possa orientare le sue scelte in maniera libera e consapevole”.

Ostetriche

La Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica (FNOPO) attraverso il Codice Deontologico dell’Ostetrica/o (approvato dal Consiglio Nazionale nella seduta del 19 giugno 2010 con integrazioni/revisioni approvate dal Consiglio Nazionale nella seduta del 5 luglio 2014, con nuove integrazioni proposte nella seduta del 28 e 29 luglio 2017 ed approvate dal Consiglio Nazionale del 18 novembre 2017), garantisce, per quel che inerisce i rapporti con la persona assistita, attraverso il punto 3.10 l’adeguata informazione all’assistita prima di intraprendere qualsiasi atto sanitario al fine di acquisire l’eventuale consenso/dissenso informato.

Possiamo quindi dire che la tematica del consenso informato si è imposta inizialmente attraverso le elaborazioni dottrinali, giurisprudenziali e bioetiche, visto che vi era un vuoto di normative regolamentanti la fattispecie, a parte alcune norme speciali e di settore.

Lacuna normativa generale che inizialmente è stata ovviata da due importanti fonti normative che non hanno trovato ancora piena attuazione nel nostro paese; parliamo della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, cosiddetta “Carta di Nizza”, e della “Convenzione di Oviedo”.

La cosiddetta Carta di Nizza ratificata il 7 – 9 dicembre 2000, ritenuta una sorta di embrione della carta costituzionale europea, dedica l’art. 3, rubricato come “Diritto all’integrità della persona”, al tema del consenso informato, prevedendo che nell’ambito della medicina e della biologia deve essere rispettato il consenso libero e informato della persona interessata, secondo i modi previsti dalla legge.

Convenzione di Oviedo

La Convenzione di Oviedo firmata il 4 aprile 1997, con protocolli addizionali, di cui uno firmato a Parigi il 12 gennaio 1998, n.168, sul divieto di clonazione degli esseri umani”, viene recepita in Italia mediante la legge 28 marzo 2001, n. 145 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina”, dedica gli artt. da 5 a 10 alle problematiche dell’informazione e del consenso.

In particolare l’art. 5 recita “Qualsiasi intervento in campo sanitario non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il proprio consenso libero e informato. Questa persona riceve preventivamente un’informazione adeguata in merito allo scopo e alla natura dell’intervento nonché alle sue conseguenze e ai suoi rischi. La persona interessata può liberamente ritirare il proprio consenso in qualsiasi momento”.

Di rilevanza fondamentale è stato l’apporto della Corte Costituzionale attraverso la sentenza 15 dicembre 2008, n.438, stabilendo che “il consenso informato inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione – principio personalistico -, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”.

Dopo una lunga attesa il Legislatore approva una importante legge il cui fulcro è il consenso informato e il fine vita, trattasi della legge 22 dicembre 2017, n.219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

La legge in parola, che distingue in modo chiaro e opportuno che l’informazione deve essere fornita al paziente prima dell’acquisizione del consenso/dissenso, all’articolo 1, comma 1, richiama gli articoli costituzionali 2, 13 e 32, inerenti all’autodeterminazione, alla inviolabilità della libertà personale e al diritto alla salute, e gli articoli 1, 2 e 3 della Carta di Nizza; stabilendo che “..nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Inoltre dispone che l’informazione deve essere onesta, veritiera e completa. Quanto detto è sancito all’art.1, comma 3, il quale recita testualmente:

“Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo – informazione onesta -, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati – informazione veritiera -, nonché riguardo alle possibili alternative – informazione completa – e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni, ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

Dall’art.1, c.3, della L. 219/2017, quindi si evince chiaramente che il paziente ha il diritto inviolabile a conoscere le sue condizioni di salute, ricevere le informazioni complete, aggiornate e a lui comprensibili in merito alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici ed eventuali rischi relativi agli accertamenti diagnostici e/o ai trattamenti sanitari prescritti, così come ha diritto ad essere informato in merito ad eventuali alternative e alle possibili conseguenze derivanti dal rifiuto/rinuncia del trattamento sanitario e/o accertamento diagnostico.

Inoltre tale norma dispone che il paziente può, in modo chiaro ed espresso, rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ed eventualmente delegare familiari o una persona di sua fiducia a riceverle e ad esprimere il consenso in sua vece, tale eventuale indicazione deve essere registrata sul FSE (Fascicolo Sanitario Elettronico) e nella cartella clinica.

Sarebbe opportuno integrare il comma in questione, prevedendo la registrazione di tale delega anche nella cartella infermieristica, visto quanto previsto al comma 2 del medesimo articolo “Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe sanitaria”.

A tal punto dovrebbe essere chiaro che la parte fondamentale della tematica è che l’informazione deve precedere il consenso. Inoltre è opportuno distinguere: le varie tipologie di soggetto che deve prestare il consenso (individuo maggiorenne, oppure maggiorenne in stato di incoscienza o minorenne o soggetto con amministratore di sostegno, oppure soggetto inabilitato o interdetto) e le circostanze e condizioni del paziente (situazioni di routine, di urgenza o emergenza).

In seguito alla promulgazione della legge n. 219/2017, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’onere dell’acquisizione del consenso informato è un preciso dovere di chi prescrive ed effettua la prestazione sanitaria, sia esso medico (Cassazione sez. Civile III° n.29709/2019, n.28985/2019 e ord. n.16892/2019), o sia infermiere (Cass. Pen. V° n.38914/2015 e n.50497/2018), in considerazione della responsabilità specifica relativa alla propria diretta competenza dell’intervento proposto.

È d’uopo considerare in tale circostanza che l’art. 27 della Cost. sancisce che la responsabilità è personale, per tal ragione non può essere delegato a terzi un compito preliminare alla propria prestazione, qual è l’acquisizione del consenso informato per un atto medico o infermieristico.

Trattare l’argomento del consenso informato ad una platea di professionisti sanitari non medici è opportuno, in quanto in molte realtà sanitarie pubbliche e private l’acquisizione del consenso informato viene, tutt’oggi, non correttamente eseguita e in determinate circostanze tale onere viene impropriamente delegato dal medico a soggetti terzi, in prevalenza infermieri, quindi a coloro che non effettuano direttamente la prestazione sanitaria.

A tal proposito sorge il dubbio, viste le normative di settore (Codice deontologico medico – FNOMCeO) del 2014, art. 35 “L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile……), se l’acquisizione del consenso informato ad opera dell’infermiere, anche se “delegato” dal medico, per quel che concerne la prestazione sanitaria che dovrà essere eseguita dal medico, possa configurare, ai sensi dell’art. 348 “Esercizio abusivo di una professione”, un esercizio abusivo  della professione medica; dubbio che si estende a qualsiasi altro professionista sanitario che si presta all’acquisizione del consenso informato su “delega” del medico.

Relativamente a quanto anzidetto, bisogna rafforzare il concetto che, come stabilito dall’art. 1, comma 2, della legge n. 219/2017, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe sanitaria contribuiscono alla relazione di cura in base alle rispettive competenze; pertanto è di chiara evidenza che, le informazioni fornite al paziente dall’equipe sanitaria sono solo integrative e non sostitutive di quelle dovute dal sanitario che effettua direttamente la prestazione, ne consegue che quest’ultimo è obbligato all’acquisizione del consenso previa adeguata ed esaustiva informazione.

Dopo quanto esplicitato, si auspica:

  • che venga, quanto prima, prevista un’integrazione del Codice deontologico infermieristico, considerando la Legge n.219/2017 nella sua interezza, in modo da rendere, tra l’altro, apodittico che l’onere dell’acquisizione del consenso, previa informazione onesta, completa, veritiera e comprensibile per la persona, grava solo ed esclusivamente sul professionista sanitario che effettuerà la prestazione e su nessun’altro;
  • che le strutture sanitarie pubbliche e private provvedano, nel caso non vi abbiano già provveduto, ad organizzare quanto prima specifici momenti formativi, ex art. 1, c. 9, L. 219/2017, in modo da formare adeguatamente i professionisti sanitari, garantendo una piena e corretta attuazione della normativa in parola e nel contempo riducendo le probabilità che si aprano dei contenziosi tra cittadino-utente e la struttura sanitaria.
  • che la L. n.219/2017, sia novellata in alcuni punti in modo da disciplinare la materia del consenso informato, in modo chiaro ed esaustivo, anche per ciò che concerne la relazione di cura che si instaura tra le cd. professioni sanitarie non mediche e il paziente; ad esempio all’art.1., c.8, sarebbe utile sostituire “…tra medico e paziente…” con “…tra professionisti sanitari e paziente…”, in modo tale che il tempo di comunicazione sia considerato tempo di cura indipendentemente dal professionista sanitario che si relaziona con il paziente.

Quanto ci si auspica potrebbe essere di facile realizzazione attraverso la considerazione e il coinvolgimento nei vari ambiti sanitari e politico-sanitari degli infermieri legali e forensi.

Dott. Savino Dilillo – Infermiere Legale e Forense, membro Ufficio Stampa APSILEF

(ogni diritto e utilizzo inerente all’articolo  è riservato all’autore)

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