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Scompenso cardiaco: svolta nel trattamento grazie a nuovi farmaci

Lo scompenso cardiaco, patologia cronica con esito fatale nel 50% dei pazienti entro cinque anni dalla diagnosi, colpisce circa 15 milioni di persone in Europa. Di queste, oltre il 10% ha un’età superiore ai 70 anni. In Italia è la causa principale di ospedalizzazione nelle persone di età superiore ai 65 anni, con un impatto non solo clinico ma anche sociale ed economico molto rilevante. Lo scompenso cardiaco è spesso associato ad altre malattie del sistema cardio-nefro-metabolico, come il diabete di tipo 2 e le malattie renali.

A causa della natura interconnessa di questi sistemi il miglioramento di uno può portare effetti positivi in tutti gli altri. Per questi motivi si sono studiati gli effetti della classe degli inibitori selettivi del co-trasportatore renale di sodio e glucosio (SGLT2i), già indicati sia come monoterapia, sia in terapia di combinazione in pazienti con diabete di tipo 2 e che hanno dimostrato attraverso numerosi studi RCT di garantire benefici aggiuntivi, come la riduzione della pressione arteriosa e dei ricoveri per scompenso (-35%), il rallentamento del declino della funzionalità renale (-39%), la mortalità per tutte le cause (-32%).

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Sulla base di queste evidenze sono stati impostati numerosi nuovi studi, con l’obiettivo di valutarne l’impatto in ambito cardiovascolare, indipendentemente dal diabete. Così si è aperta la strada a una nuova indicazione, che rappresenta una svolta epocale nel trattamento dei pazienti con scompenso cardiaco cronico sintomatico. Sulla base di queste evidenze Motore Sanità ha promosso il primo di una serie di tavoli di confronto nelle diverse regioni italiane dal titolo “L’innovazione che cambia e salva la vita dei malati cronici – Scompenso cardiaco – Focus on SGLT2i Piemonte”. Obiettivo: favorire una condivisione di idee sulla revisione del disease management per questa importante cronicità, che interessa una ampia fetta di cittadini.

Così Claudia Raineri, responsabile della Cardiologia all’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino: “L’ospedalizzazione è una finestra fondamentale su cui il cardiologo deve lavorare per dare una corretta cura farmacologica al paziente. Il 30% dei nostri pazienti non assume almeno un farmaco di quelli che dovrebbe secondo le linee guida e solo il 15% utilizza a dosaggio ottimale quelli indicati. Quello che stiamo cercando di fare è un percorso a partire dal pronto soccorso e identificare le diverse tipologie dei pazienti suddivisi per rischio. L’implementazione della terapia ha un ruolo importantissimo e la telemedicina può essere uno strumento di grande ausilio. Dobbiamo fare formazione sul territorio per ottimizzare il trattamento e un grosso investimento andrebbe fatto anche sulla formazione diagnostica. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza può dare accesso alle nuove strumentazioni di diagnostica che attualmente non sono di facile accesso”.

“Siamo in una fase di lavoro attiva molto importante. Lo scompenso è anche la vittoria del nostro operato, gli scompensati crescono perché si è ridotta la mortalità – dice Alessandra Chinaglia, direttore SC Cardiologia, AOU San Luigi Orbassano –. Questo è un dato molto importante, ma bisogna lavorare per passare il lavoro sul territorio per gestire la cronicizzazione della malattia. Per anni la cronicità è stata gestita dagli ospedali, ma non si deve continuare così. Noi dobbiamo lavorare per ridurre l’ospedalizzazione e la mortalità a trenta giorni. Le novità farmacologiche hanno un impatto fortissimo cambiando la storia naturale della malattia”.

Aggiunge Chinaglia: “Tutti i percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali (PDTA) si sforzano di creare una rete e dei punti di osservazione del paziente. Il PDTA, però, poi lo fanno le persone, e le persone necessitano di essere formate adeguatamente sullo scompenso cardiaco. Quindi il PDTA deve essere sostenuto da una potente informazione e formazione. Servono dei meccanismi per continuare a seguire il paziente nel tempo per garantire l’adeguatezza e l’aderenza delle cure, inserendo quando necessario le novità farmacologiche nel loro percorso di cure. Il PDTA deve inoltre garantire l’accesso alle cure raccomandate anche ai pazienti che non entrano in contatto con l’ospedale, ma solo con il territorio”.

Redazione Nurse Times

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