Alla première del film La scommessa – Una notte in corsia al Cinema Modernissimo di Napoli si ride con fatica, gli applausi sono smorzati e in diversi punti della sala tiepidi. Non si discute la bravura degli attori protagonisti (Carlo Buccirosso, Lino Musella, Nando Paone, Yari Gagliucci, tra i più noti), che da anni affrontano il grande e piccolo schermo con disinvolta maestria. Non si dubita neanche della scelta di puntare su una commedia noir che, quando si sceglie di vedere, non è sempre così piacevole da digerire. Come in questo caso.
Una notte in corsia: 12 ore in cui due infermieri, Angelo e Salvatore, trascorrono in un reparto dell’ospedale Santi Martiri di Napoli. Durante quelle ore, tra la noia e il gioco, si accordano su una scommessa: un paziente arrivato in stato di incoscienza secondo l’uno vivrà, secondo l’altro morirà. La posta in gioco è altissima: 200 euro e le ferie tra Natale e Capodanno. Quelle ore interminabili scandite dalla lancetta di un orologio appeso al muro con la scritta “Forza Napoli” passano in fretta.
Giovanni Dota, il regista che prova a dare un senso di ritmicità al film, si sposta tra stanze e personaggi che sembrano cavare un coniglio dal cappello, insoliti per un contesto serio come una corsia e, soprattutto, fuori dalle righe. Ciò che fa storcere il naso – e lascia sgomenti – sin da subito non sono le frasi create per assicurare l’effetto di una comicità ben voluta come (“Questo non arriva a domani” o “Caputo é un uomo morto”).
Non sono i contorni tipici di una napoletanità tanto seria sulla morte da ispirare poesie, numeri, canzoni. Non appare neanche così inappropriata la scelta attuata dal regista di dare il volto ai due infermieri ora carico di pietas, ora carico di cinica spietatezza, mista a un pensiero machiavellico che esclude qualsiasi forma di deontologia professionale ed etica umana.
Il sorriso scatenato dal personaggio di Angelo, conteso tra un’amante che lavora in reparto e una moglie a tratti mascolina, e di Salvatore, un Robertino troisiano dei giorni nostri, cala quando Buccirosso rivolge ai figli del signor Caputo e ai colleghi la frase: “Restiamo umani”, pronunciata in un ospedale fatiscente, come lo sono i protagonisti nella discesa del disumano. Peccato che evidenzi il tentativo di cavalcare l’onda del momento, che si nutre quotidianamente di notizie fatte di aggressioni quotidiane agli operatori – una scena che nel film non manca – e della ricerca di imputati seguendo una perfetta blame culture.
È questo il risultato finale di una commedia indesiderata: annientare la credibilità del Servizio sanitario nazionale e la fiducia nei professionisti sanitari, già provati enormemente da tagli e violenze. Un film, come diversi che si vedono ormai in tivù, sulle piattaforme e al cinema, che mortifica la realtà sanitaria e i professionisti infermieri, dipinti sciocchi, frustrati, annoiati, ibridi e mai pienamente riconosciuti nelle loro competenze specialistiche.
Anzi, il pericolo – che si è tramutato in un danno dell’immagine sociale e dell’autopercezione sgretolata – è quello di adoperare gli infermieri come capri espiatori di appiattimento – soldi e ferie – e incompetenze emotive. Che non si conoscano i tratti di una commedia noir è fuori discussione: la realtà che stanno vivendo i professionisti sanitari e i servizi sanitari sono molto più noir.
La stessa realtà vissuta da tanti spettatori che, nel vedere questa commedia, potranno arrivare a pensare: “Esiste davvero qualcuno che abbia il coraggio di scommettere e di fare davvero quella scommessa?”. Una fonte di innesco alla nosocomefobia, atta a far pronunciare, come successo in sala: “Questo film può essere visto da chi non rischia di perdere la propria salute nelle corsie”.
Anna Arnone
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