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Riscrivere il paradigma dell’assistenza infermieristica si può, ma non senza gli infermieri

Ripartire a discutere nel merito quando fa più audience parlare di “quanto sia cattivo il mondo” è operazione ardita, perché nessuno ha voglia di approfondire. Riportare i colleghi sul quesito del nostro futuro quando il presente appare più appetitoso perché di facile fruibilità è scopo di questo articolo che parte da lontano, ed esattamente dal gennaio 2015.

In quei primi giorni del nuovo anno, a poche settimane dall’emanazione della legge 190/2014 che conteneva il famoso comma della discordia ovvero il 566, un pensiero articolato e profondo è passato quasi del tutto inosservato.

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Marcella Gostinelli nel suo articolo “Infermieri. Ecco perché non è solo una questione di competenze” (VEDI)  rielaborava la vulgata entusiastica di una scelta governativa di aprire alle cosiddette competenze avanzate per gli Infermieri, una scelta che avrebbe da lì a poco partorito il topolino che la FNC avrebbe chiamato “Evoluzione delle Competenze Infermieristiche” con la delibera 79/2015 (VEDI).

Il dibattito attorno al comma 566 ha visto una rilevante produzioni di interventi, io faccio parte di questo nutrito gruppo di “parolai”, ma pochi se non nessuno (Marcella a parte) ha avuto la capacità di interrogarsi veramente su quanto è avvenuto e soprattutto è stato capace di analizzare fino in fondo la delibera della FNC, una delibera che dopo la sua promulgazione non si sa bene che fine abbia fatto.

Rileggere la riflessione di Marcella a distanza di oltre un anno, fa meglio comprendere come i passi compiuti siano stati di fatto pochi, incerti e senza alcuna strategia rispetto a quanto avviene nel mondo sanitario.

Quello che mi colpiva e che voglio riportare alla luce con questo intervento è la ricostruzione storica che viene offerta, nella quale si evince un bisogno di portare la professione verso una scelta tecnicistica che niente a che vedere con la emancipazione “intellettuale” che la professione dovrebbe ottenere per vedersi finalmente liberata dalla posizione di post ausiliarietà tanto contestata anche da chi scrive.

È innegabile che nelle scelte politiche che solo nel 2012 venivano proposte dall’allora Presidente Silvestro c’era la necessità di ridimensionare una sconfitta storica per la professione che stava diventando palese agli occhi dell’allora establishment professionale ma che non poteva essere né doveva essere riconosciuta ai quasi 400mila infermieri che non trovavano risposta nelle loro UO e nelle organizzazioni sanitarie.

Si era preferito allora aggirare il problema, quello dell’organizzazione del lavoro, con una nuova visione: ipotizzare una scelta tecnica attraverso la ridefinizione del paradigma assistenziale infermieristico. Non so se in quel Congresso la Presidente aveva già elaborato la scelta di tentare la carta della carriera politica istituzionale né se in quella sua futura scelta ci fosse l’intenzione di lavorare perché quel “paradigma” svoltasse attraverso la norma, ma il 566 e la delibera 79/2015 mi pare confermino i dubbi.

Quel frangente storico non aveva ancora evidenziato tutte le contraddizioni di una crisi che solo ora appare in tutta la sua drammaticità, mettendo in ginocchio le professioni ed il valore aggiunto che essere possono apportate al sistema che vive ormai di scelte economiciste.

La allora Presidente Silvestro aveva giustamente fatto una scelta politica, non dubito che fosse nelle sue “competenze” tracciare una via, la politica ha questo come obbligo ma rimane curioso come sia stato fatto nel totale disinteresse dell’intera comunità, la quale era (ed è tutt’ora) alle prese con una considerevole impossibilità a cogliere il cambiamento perché impegnata a sostenere il carico del de-finanziamento del sistema (e con lei tutte le professioni).

Quanto Marcella Gostinelli richiamava era una partecipazione forte da parte della nostra classe professionale che non si limitasse ad una delega rappresentativa in mano ai Presidenti provinciali dei Collegi IPASVI, ma ad una più massiccia partecipazione dei professionisti a ridefinire insieme, semmai avesse bisogno di una ridefinizione, del paradigma assistenziale. Soprattutto Marcella sottolineava che quel paradigma che si chiedeva di cambiare, a molti non era mai stato svelato, per molti rimaneva un mistero seppur essi fossero tutti considerati “professionisti”.

Siamo inconsapevolmente entrati in una fase regressiva della nostra professione, una regressione iniziata senza alcun evidente segno premonitore ma che possiamo ricercare nella crisi del sistema Italia, volendo essere retorici, oppure più semplicemente nel sistema sanitario che sta tentando una sua ridefinizione attraverso una regressione delle competenze dei suoi professionisti.

Attenzione, non uso a caso la parola “regressione” perché quando il lavoro viene decapitalizzato è evidente che l’unica soluzione che abbiamo per poterlo rendere efficiente è portare in regresso i suoi prestatori d’opera, dando loro “competenze” non riconosciute economicamente ma molto allettanti mediaticamente.

Il See&treat è stato solo il primo approccio al tentativo di portare quello che considero un attacco alla specificità infermieristica rispetto alle risposte in termini di “accesso all’assistenza” che sembra scomparso dai radar professionali, sotterrato dalle più risonanti parole di “accesso alle cure” o “accesso ai servizi”.

Mentre taluni Infermieri venivano caricati di nuove “competenze”, altri si sobbarcavano le difficoltà del blocco del turnover vedendo messa in opera un sistematico “demansionamento”, se da un lato le competenze avanzate non avevano alcun riconoscimento economico (men che meno su quello sociale), dall’altra si assisteva a professionisti pagati per “interagire con la complessità del malato e della famiglia con i loro bisogni” adibiti a mille mansioni, spesso non di loro “reale competenza”. In Toscana si dice “poggia e buca fa pari”.

Piccola precisazione: nessuna intenzione di mettere sotto accusa il see&treat, anzi, ma resto convinto che di fronte ad un pericoloso mercimonio della prestazione sanitaria, appare evidente che chi opera nel contesto politico non ha alcun interesse ad identificare chi “presta l’opera” ma semplicemente garantirla con buona pace di tutti i paradigmi professionali, siano essi medici o infermieristici.

Mutuare dal mondo anglosassone una peculiarità organizzativa senza apportare le dovute modifiche anche alla preparazione culturale di chi poi andrà ad operare in quel contesto, è un’operazione disonesta da un punto di vista intellettuale, indipendentemente se essa ha poi un impatto positivo. Non mi stupirei se contrattualmente quanto è stato consolidato rientrasse nelle “normali” attività infermieristiche, senza alcun riconoscimento professionale della specificità.

E’ stata compiuta un’opera di regressione lavorativa in presenza di una varianza organizzativa, cosa più unica che rara nella nostra professione che vive quotidianamente il contrario.

Chiusa la parantesi, vorrei tornare a quanto stavo approfondendo, ovvero come e quando il comma 566 e la delibera 79/2015 diverranno oggetto di attento dibattito, visto che già nel 2012 la Presidente Silvestro nel suo tentativo predittivo del cambio paradigmatico della professione, aveva sottolineato la necessità di un confronto dentro la professione che sapesse sviluppare un “strutturato progetto professionale collettivo”.

Come giustamente faceva notare Marcella, di quel dibattito apparentemente fondamentale non vi è traccia come non vi è traccia del famigerato progetto, la chiave di volta della professione in quel tempo non è stata nemmeno ipotizzata, nel frattempo siamo stati superati dal comma 566 e dalla delibera 79/2015.

Ma questo sorpasso, fortemente sostenuto dalla FNC, rischia di essere il più inutile della storia infermieristica, che invece di portarci dritti al traguardo dell’emancipazione dalla post-ausiliarietà rischia di riportarci esattamente al punto di partenza, in una sorta di casella “torna indietro” di un perverso gioco dell’oca.

Stiamo stravolgendo il concetto di “infermieristica” attraverso una ridefinizione di “atti infermieristici” o “competenza avanzate” che nel nominarle hanno il suono sinistro della “mansione”. Tutto questo avviene proprio mentre sta cambiando il modello di risposta da parte del Servizio Sanitario. In quest’ottica, invece di valorizzare la visione della “presa in carico” del paziente cronico, con tutto il mondo complesso di bisogni e relazioni, preferiamo andare verso una semplificazione dell’atto infermieristico, dove la maggiore “specializzazione” potrebbe non comportare un miglioramento degli outcome di valutazione del benessere del paziente. In questo contesto, tutto tornerebbe nelle sole peculiarità mediche.

Dunque a cosa è servito l’impianto manageriale se, nel quadro d’insieme, quest’ultimi sono in grado di governare il processo, interagendo con i loro colleghi e soprattutto provando a diventare decisivi nelle scelte organizzative per migliorare gli esiti.

Con questi dubbi, che rimangono aperti alla discussione e con la consapevolezza che sarò pronto a chiedere scusa laddove vi fossero in queste righe qualche previsione sbagliata, che auspico al più presto una apertura del dibattito all’interno della professione che sia il più ampio possibile e riesca finalmente a coinvolgere la maggioranza silenziosa che opera quotidianamente lontano da “competenze avanzate” o “specialistiche”, che si sente professionista “de-professionalizzato” e che non trova riscontri nelle azioni quotidiane, esse siano di tutela della professione o di tutela del lavoro.

Riscrivere il paradigma dell’assistenza infermieristica si può anche fare, ma se si fa senza gli infermieri si rischia solo di essere un interlocutore poco autorevole perchè tutto questo avvenga serve costruire un movimento culturale che riparta dalla riflessione e si riscopra la parola per il confronto.

Piero Caramello

Redazione Nurse Times

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