Perché il vaccinarsi è un’azione infermieristica

In questi ultimi mesi, soprattutto dalla seconda metà di gennaio 2016, la Toscana sta facendo fronte ad un’ondata di richieste di vaccini tetravalenti contro il meningococco A, C, W e Y.

Dal 2015 i casi di meningite hanno colpito tutte le province, e la morte di alcuni pazienti in cura ha fatto scattare l’allarme.

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La Regione ha promosso una campagna di vaccinazione straordinaria che è stata prolungata fino al 30 giugno 2016 che si rivolge a tutti i cittadini.

Conseguentemente a questo allarme prolungato, è partita la “caccia al vaccino”. Da una parte questo può far piacere, ma l’altra faccia della medaglia rivela che ci troviamo di fronte a un problema di scarsa copertura: se ci sono state così tante richieste, vuol dire che fino a poco tempo fa i vaccinati erano pochi (o comunque sotto la media di copertura efficace).

La meningite c’è sempre stata, c’è e ci sarà, e molti diranno che i casi non si discostano poi così tanto dalla media degli anni passati. È pur vero che i vaccini abbassano le difese immunitarie generali (ma, come si evince dalle pagine di queste FaQ riguardo ai vaccini), questo argomento è una goccia nel mare); inoltre i movimenti antivax gridano ormai da anni al complotto e, soprattutto per i vaccini obbligatori in età pediatrica, il trend del passato è nettamente modificato.

Detto ciò, parafrasando un film della mia adolescenza, “ma non parliamo di te… parliamo di me, parliamo di me”: questa citazione capovolta, presa in prestito dal film “Fuochi d’artificio” di Leonardo Pieraccioni (1997), vuole solo introdurre un episodio accaduto di recente, e spiega il perché vaccinarsi è, secondo me, un’azione infermieristica.

Da operatore sanitario – che lavora in Toscana in un ambiente a contatto con una moltitudine di persone – sono vaccinato con il tetravalente (ACWY) e cerco di promuovere quotidianamente le vaccinazioni descrivendo pro e contro dell’atto a chiunque me lo chieda. Anche la promozione della salute è parte integrante del nostro lavoro.

Un sabato sera sono fuori con il mio gruppo di amici e qualcuno (incredibilmente non il sottoscritto) tira fuori l’argomento “meningite e vaccini”: chi è stato dal medico di medicina generale e ha sentito opinioni contrastanti riguardo a farlo o non farlo, chi dal medico proprio non c’è andato o quello che, da buon ipocondriaco, ha preso tutte le informazioni in merito (magari da qui).

Quasi tutti i miei amici lavorano in ambienti a contatto con persone adulte e bambini: alcuni nelle scuole superiori e medie, altri in laboratori di ricerca, un paio non lavorano ma “signora mia, c’è crisi”.

“Ma io non lo posso mica fare”. È stata questa frase, detta da una mia amica, che ha prodotto il ragionamento che segue.

Lei qualche anno fa ha avuto un linfoma di Hodgkin molto aggressivo da cui, fortunatamente ma dopo una lunga lotta, ne è uscita bene. Ha ripreso la sua vita, ha completato gli studi di fisica (anzi, dava esami anche sotto chemioterapia, per far capire di che stoffa è fatta) e ora insegna. Lavorando in un ambiente (passatemi il termine) a rischio, sarebbe la candidata perfetta per il vaccino. Ma lei non lo può fare. L’ematologo le ha detto a chiare lettere che una persona che ha avuto un’immunodepressione\soppressione così prolungata non può. Sommando i suoi problemi di salute (non recentissimi, ma recenti) al suo lavoro, il quadro è fatto.

È da qui che viene l’importanza di vaccinarsi.

Chi si vaccina compie due azioni: 1) protegge se stesso 2) protegge indirettamente chi non può vaccinarsi (la cosiddetta herd immunity, o immunità di gregge), prevenendo la diffusione dell’agente infettivo.

In patogeni aggessivi come le infezioni da meningococco la herd immunity diventa una “tecnica” fondamentale di prevenzione, e questo andrebbe promosso soprattutto nelle scuole, fra i giovani. Gli operatori sanitari lo sanno, studiamo per questo, ma sono gli altri che devono capire l’importanza di ciò.

Tornando al titolo dell’articolo, è pensando al bene degli altri che si protegge tutta la comunità: questa “azione” è un punto cardine della professione infermieristica ma, se viene tradotta nella vita di tutti i giorni, molte volte la cura degli altri non è contemplata… troppo spesso pensiamo solo ed esclusivamente a noi stessi, a curare il nostro orticello.

Ma, da infermieri e da non-infermieri, si può assistere, aiutare e promuovere il bene comune e la salute in mille modi diversi, fuori da tutti i contesti politici e religiosi, solo da persona a persona.

E in questo modo se tutti i miei amici che si possono vaccinare lo fanno, se tutti i bambini e i genitori della scuola in cui insegna lo fanno, la mia amica che non può vaccinarsi sarà in una botte di ferro.

Che poi lei è potentissima, ma una mano ogni tanto serve sempre.

Marco Parracciani

Redazione Nurse Times

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