Categorie: Normative

L’inidoneità alla mansione specifica e il repechage minore

…a cura del prof. Mauro Di Fresco

L’inidoneità può anche non colpire un assetto complesso di mansioni (es. impossibilità di svolgere proficuamente le mansioni di infermiere e possibilità di svolgere quelle di amministrativo), ma singole mansioni (es. a causa della riduzione del visus la possibilità di somministrare correttamente i farmaci).

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In quest’ultimo caso si parla di inidoneità alla mansione specifica che viene accertata dapprima dal medico competente.

In questo ambito non si deve dimenticare l’art. 2087 C.C. che vieta la permanenza del lavoratore in mansioni o ambienti pregiudizievoli al suo stato di salute. – Cass. 03.07.1997 n. 5961.

Per esempio in caso di stress accertato dall’impegno lavorativo e dalle condizioni di espletamento della prestazione, l’art. 2087 che tutela la salute psico-fisica sulla base dell’art. 32 Cost., fa si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro, sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria per danno biologico, nel caso in cui non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più confacenti al suo minorato stato di salute, tali da precludere un aggravamento della salute medesima.

In poche parole la responsabilità sorge nel momento in cui non si attui una specie di repechage finalizzato ad evitare il peggioramento dello stato di salute dell’infermiere già affetto da una specifica malattia ingravescente.

Questo repechage (che chiameremo “minore”) interviene grazie al combinato disposto di cui agli artt. 1175, 1375, 2087 e 2103 C.C., quindi si attua spostando, trasferendo o, nei casi più gravi, assegnando a mansioni diverse ma equivalenti almeno sul piano retributivo (visto che si può anche cambiare area professionale sempreché la nuova professione non necessiti di un titolo specifico per il suo svolgimento) l’infermiere non più idoneo a svolgere determinate mansioni, in ambienti più consoni al suo stato di salute.

L’obbligo datoriale sussiste compatibilmente con la previsione di posizioni di lavoro in azienda per il lavoratore inabile.

La tutela si può apprestare fino al punto di trasferire un lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato di salute al posto di quello da tutelare.

Anche in questo caso l’azienda non è costretta a creare per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo. – Cass. 03.07.1997 n. 5961.

L’azienda sanitaria che ignora le legittime richieste dell’infermiere riguardo la denuncia del suo particolare stato di salute e una nuova assegnazione mansionale o ambientale idonea, incorre in serie responsabilità nel caso in cui quanto paventato si realizza cagionando danni alla salute dell’infermiere che è stato obbligato a svolgere un’attività lavorativa incompatibile con lo stato di salute denunciato. – Cass. 01.09.1997 n. 8267.

Il danno può anche consistere in un aggravamento del suo stato di salute. – Cass. 05.02.2000 n. 1307.

Purtroppo, in Italia, il danno si deve realizzare, non è sufficiente il mero pericolo.

La tutela deve essere apprestata anche agli infermieri che risultano, a causa del permanere in un determinato ambiente o per via del mantenimento a determinate mansioni, affetti da sindromi o patologie non morbigene (es. allergia o reattività ad un componente chimico di un disinfettante).

Infatti Cass. 21.01.2002 n. 572 ha stabilito: “L’art. 2087 C.C. impone, all’imprenditore, quale disposizione di chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche indipendentemente dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie lavorazioni, di adottare nell’esercizio della impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza, la tecnica e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa”. In questo caso è onere dell’infermiere indicare le mansioni e gli ambienti non nocivi o idonei al suo stato di salute.

Anzi, se le recidive patologiche portano l’infermiere ad ammalarsi superando il periodo di comporto e quindi soggiacendolo ad un legittimo licenziamento, la durata della malattia imputabile alla colpa datoriale sia per la genesi che per le incidenze, nel caso in cui l’azienda abbia ignorato le richieste del lavoratore di assegnarlo ad altro ambiente o mansioni, devono essere scomputate dal periodo di malattia di riferimento, potendo venir meno il periodo di comporto e il conseguente licenziamento. – Corte Cost. 18.07.1991, n. 356, in Riv. giur. lav. 1991, II, 143; Cass. 23.01.1986 n. 378; Cass. 08.03.1988, n. 316; Pret. Torino 10.11.1995, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 727; Pret. Milano 11.10.1995, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 192; Cass. n. 5066/2000; Pera, in Malattia e licenziamento, in Riv. it. dir. lav. 1999, I, 153 ed ivi 155-156; Trib. Pisa 10.01.2002: “La malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l’infermità abbia avuto causa, in tutto o in parte, dalla modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare l’incidenza, in adempimento dell’obbligo di protezione ed eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate”.

In questi casi può anche configurarsi il reato di lesioni colpose a cui rimandiamo per la trattazione al diritto penale. – Cass. Pen. 20.04.1998 n. 4012; Cass. Pen. 22.03.2002 n. 4129.

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