Coronavirus, infortunio sul lavoro e responsabilità penale

Sin dal 1995 l’Inail tutela come “infortuni” le malattie infettive e parassitarie. La tutela assicurativa comporta, dunque, da un lato, l’intervento dell’Inail che eroga le relative prestazioni e dall’altro, per i datori di lavoro, il tasso del premio assicurativo che essi pagano all’Inail, la cui oscillazione non viene in alcun modo intaccata dagli eventi infortunistici del contagio, completamente a carico della gestione assicurativa.

Qualora però venga accertato che l’infezione del lavoratore dipenda da inadempienze del datore di lavoro, il lavoratore potrebbe anche avviare un procedimento penale nei suoi confronti, oltre che risarcitorio per il c.d. “danno differenziale” rispetto a quanto paga l’Inail.

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La responsabilità civile e penale del datore può derivare non solo dall’inosservanza di norme espresse e precise ma anche, più in generale, dalla mancata esatta attuazione dell’obbligo della massima sicurezza possibile di cui all’art. 2087 c.c.. Senonchè questa è una norma aperta, apertissima anzi, che non contiene precise prescrizioni ma ammonisce “ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. E, dunque, di fronte ad un rischio epidemico di origine esogena – cioè che è diffuso innanzitutto fuori degli ambienti di lavoro – con il dovere di rispettare non soltanto gli obblighi specifici previsti dalla normativa dell’emergenza e dai relativi protocolli (come quelli di cui al dpcm del 26 aprile 2020 -art. 2 lett. C), ma anche quelli non scritti per la massima sicurezza possibile in ciascun concreto contesto lavorativo a sua volta inserito in un preciso territorio con le sue caratteristiche e i suoi tassi di contagio – obblighi e misure non sempre agevolmente definibili o intuibili ex ante – l’adagio “male non fare paura non avere” è praticamente una sciocchezza.

In sostanza, a fronte di confini così labili e incerti tra l’aver concorso oppure no alla causazione dell’infortunio da contagio, il datore di lavoro verrà chiamato ad una autentica probatio diabolica: provare che il lavoratore non può in alcun modo essersi contagiato sul luogo di lavoro.

Per questo, dopo i primi interventi dell’Ente previdenziale in piena pandemia (quali la nota prot. n. 3675 del 17 marzo 2020 e la circolare n. 13 del 3 aprile 2020), forieri di grande apprensione per i datori di lavoro, l’Inail ha provato a tranquillizzare tutti spiegando che non necessariamente: “l’infortunio sul lavoro per Covid-19 … è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro” anche in virtù del fatto che “la molteplicità delle modalità del contagio (ne) rendono estremamente difficile la configurabilità”. In sostanza, ha provato a rassicurare gli addetti dicendo loro che se il datore di lavoro proverà di aver adottato i protocolli si presume che non abbia avuto colpa nel determinismo del contagio. Questa decisa sterzata si è da ultimo completata con la circolare n. 22 del 20 maggio 2020, con cui lo stesso Ente rappresenta che non è “possibile pretendere negli ambienti di lavoro il c.d. #rischio

#zero.”

Ma evidentemente non basta, poiché nel nostro ordinamento la presunzione di non colpevolezza può essere iuris et de iure o iuris tantum (con la prima di queste espressioni si designano le presunzioni c.d. assolute, cioè che non ammettono alcuna prova in contrario, mentre con la seconda le presunzioni c.d. relative, ossia che consentono alla parte contro cui la presunzione è invocata di provare il contrario). Ecco perché, col passare dei giorni, si è fatta sempre più pressante la richiesta di una sorta di scudo espresso e chiaro, almeno penale, a favore di chi dimostri di aver osservato gli specifici protocolli di sicurezza.

Questo grido d’allarme ha così portato ad una intesa sul punto: in Commissione alla Camera è stato infatti approvato un #emendamento (il numero 27.08) al Decreto “Liquidità” proprio al fine di schermare il datore di lavoro da possibili imputazioni di responsabilità penale in caso di contagio di un suo dipendente. Così recita il nuovo articolo 29-bis, formulato dalle Commissioni:

Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.

Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Le “misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” quindi, si riterranno comunque garantite dall’imprenditore che rispetta le regole fissate dai protocolli di settore. In primo luogo, si fa riferimento a quello firmato lo scorso 24 aprile da Governo e parti sociali, dedicato alle attività produttive. Ma non solo: l’articolo fa riferimento anche a tutti i protocolli che sono stati e potranno essere adottati dalle Regioni o dalla Conferenza delle Regioni.

Fonte: Nicola Roberto Toscano & Partners – Avvocati Giuslavoristi

Cristiana Toscano

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