Martedì scorso, 3 ottobre, un detenuto del carcere di Bari ha aggredito un medico e un infermiere in medicheria. Contattato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, l’infermiere – 30 giorni di prognosi per lui – ha riferito: “Fisicamente sto bene, psicologicamente mi devo rimettere. Ma che sia chiaro, io sono un combattente e voglio tornare al mio lavoro, perché amo quello che faccio. Anche se all’interno di un penitenziario e anche se è molto duro lavorare a certe condizioni”.
“Quello di martedì è un episodio che poteva avere conseguenze molto più gravi – spiega l’infermiere aggredito il 3 ottobre -. Ognuno di noi deve gestire da solo circa 150 detenuti: persone che per me non sono reclusi, ma pazienti. Io cerco di curarli. Ma la struttura è quella che è: il carcere di Bari è vecchio, la medicheria altro non è che una serie di celle convertite in spazio medico. Sono moltissimi i detenuti con patologie: da chi è diabetico a chi soffre per stati di ansia; c’è chi ha problemi cardiaci e chi una situazione anche più grave. A centinaia. In pratica, più che un penitenziario, sembra un ospedale”.
Ma cos’è successo martedì scorso, di preciso? Il personale sanitario in turno è stato avvisato che un detenuto è caduto in cella e si è fatto male. “L’ascensore è rotto – racconta l’infermiere aggredito -. Quindi l’uomo, che sembrava semi-svenuto, è stato accompagnato lungo le scale da altri detenuti. In medicheria lo abbiamo fatto stendere, non sembrava agitato. Era sporco di sangue. Io gli stavo pulendo la fronte per vedere dove aveva battuto, mentre il medico lo tranquillizzava”.
“Momenti che sinceramente ancora oggi faccio fatica a ricordare e mettere a fuoco – dice l’infermiere -. Grida, poi l’intervento di altri detenuti per cercare di calmarlo, gli assistenti, l’ispettore… In medicheria ci sono tanti oggetti pericolosi per l’incolumità nostra e dei detenuti. Strumenti affilati, provette di sangue. Il mio timore era che, oltre a noi del personale sanitario, anche altri potessero farsi male. Credo di aver iniziato a urlare che io vado lì a lavorare, non a vivere certe violenze”.
“La collega del Pronto soccorso, mentre mi assisteva, mi ha raccontato che a lei è capitato che una paziente la aggredisse tirandole i capelli. Facciamo lavori che spesso le persone non capiscono. Quella del carcere, poi, è una realtà che, se non si prova, non si capisce veramente. Lì tutto è amplificato: come vedere la realtà con una grande lente di ingrandimento. La mia rabbia, oggi, è di non aver saputo difendere la mia medicheria. Tutto è accaduto così velocemente, in pochi secondi, che non riesco neanche a mettere a fuoco gli eventi. Restano il dolore, lo spavento. E’ impensabile che io debba uscire per andare al lavoro e correre il rischio di rientrare col naso rotto o con una malattia. Ho figli, una famiglia, chi mi tutela?”.
E ancora: “Questi casi si stanno moltiplicando: c’è l’aggressione a una collega da parte di un detenuto che ha cercato di baciarla; un altro che arriva in medicheria con una lametta in bocca. Tutti noi cerchiamo di dare il massimo, ma la situazione si sta aggravando. Abbiamo turni di lavoro che iniziano alle 6 di mattina, ci alziamo alle 4. Dobbiamo sempre guardarci attorno, anche se andiamo in pizzeria, perché la prudenza non è mai troppa. E ora anche questo”.
Redazione Nurse Times
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno
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