Normative

Cassazione: “Cartella medica incompleta non può tradursi in danno per il paziente”

Rlanciamo il commento dell’avvocato cassazionista Angelo Russo alla sentenza 18.2.2021 n. 4424 della terza Sezione civile della Suprema Corte.

I fatti – I sig.ri C.A. e F.R., in proprio e nella loro qualità di genitori di C.E., hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la ASL Napoli (OMISSIS), il Dott. I.B. e la sig.ra M.M. per ottenere la condanna degli stessi al risarcimento dei danni (biologico del figlio e danno parentale) derivati dalle gravissime lesioni patite dal minore in data (OMISSIS) all’atto della nascita (tetraparesi spastica), previa dichiarazione di responsabilità, per negligenza, imperizia ed imprudenza, nell’intervento di estrazione del nascituro con ventosa, effettuato dal Dott. I., coadiuvato dalla ostetrica M., presso la struttura ospedaliera (OMISSIS).

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La sig.ra F., ricoverata alle ore 8:00 del (OMISSIS), all’epoca primipara di (OMISSIS) in stato di gravidanza alla 41esima settimana, alle ore 21:00 dava segni di imminente parto e alle ore 00:45 del giorno successivo era condotta in sala parto.

L’equipe medica decideva di effettuare l’intervento con applicazione di ventosa ostetrica in presenza di una chiara difficoltà a partorire, senza operare una scelta alternativa meno rischiosa per la mamma ed il bambino in relazione al quadro clinico oramai delineatosi, sicché il piccolo E. riportava una grave asfissia con areflessia con conseguente paralisi cerebrale  infantile  che  non migliorava nel tempo, talché i due genitori dovevano costantemente provvedere alle esigenze del figlio, sconvolgendo la loro vita privata.

Nel giudizio di primo grado si sono costituiti l’ASL e il Dott. I. chiedendo il rigetto della domanda attorea, mentre la sig.ra M. è rimasta contumace. Espletata l’istruttoria con escussione di testimoni e disposta CTU medico-legale, il Tribunale di Napoli ha dichiarato la responsabilità dell’ASL e del Dott. I. e li ha condannati in via tra loro solidale al risarcimento per complessivi Euro 2.108.544,00, oltre spese di giudizio.

Avverso la sentenza, ha proposto appello la ASL e appello incidentale il Dott. I. Si sono costituiti i sig.ri C.- F. per chiedere conferma della sentenza, nonché la sig.ra M. per chiedere il rigetto delle domande formulate dagli appellanti nei suoi confronti.

La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato gli appelli promossi dalla ASL e dal Dott. I., e, per quanto d’interesse, ha confermato la sentenza di prime cure in ordine alla condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale, e ha condannato la Azienda sanitaria e il Dott. I. alla rifusione delle spese di lite in via tra loro solidale.

La Corte d’Appello – sulla scorta degli  esiti  dell’istruzione  probatoria svoltasi in prime cure con l’acquisizione di una CTU – ha ritenuto la responsabilità del  medico per condotta negligente consistente nell’omessa “forma minimale di sorveglianza” del benessere fetale, nei 45 minuti precedenti al parto, e in particolare per mancato utilizzo del cardiotocografo o, comunque, per mancato rilievo intermittente del battito cardiaco del nascituro, consigliato dalla letteratura scientifica, rilevando che fosse altamente probabile che il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dell’ipossia, occorsa a causa del giro di cordone  ombelicale stretto al collo.

Nella sentenza si è dato rilievo al fatto che la cartella clinica, dalle ore 0,40 sino all’atto della nascita difettava di qualsivoglia annotazione valutativa, mentre sino a quell’ora risultavano tre tracciati con cardiotocografi e l’assenza di alcun fattore di rischio. Si è data rilevanza alla testimonianza resa da una teste presente in sala parto, quale congiunta della partoriente, di professione infermiera, che ha riferito che, in quel frangente, il medico aveva assistito un’altra partoriente e lasciato la ricorrente nelle mani dell’ostetrica.

La Corte d’appello, ha ritenuto che, nel caso specifico, le parti convenute non erano state in grado di offrire la prova liberatoria, richiesta dall’art. 1218 c.c., che l’esito peggiorativo o infausto del parto sia stato determinato da un evento imprevedibile e inevitabile alla fine del periodo espulsivo, secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, pur essendo pacifico che l’apossia era stata determinata dall’attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo del nascituro. Ha proposto ricorso per Cassazione il dott. B. I.

La decisione della Corte di Cassazione – Con il primo motivo si contesta che la Corte d’Appello, facendo proprie le risultanze della CTU espletata in prime cure, avrebbe erroneamente ritenuto provato il nesso causale e la colpa del sanitario, in quanto avrebbe in tesi fondato la responsabilità del Dott. I. esclusivamente sul mancato utilizzo del cardiotocografo (CTG), sebbene – come rilevato anche dal  consulente tecnico di parte – l’omessa sorveglianza fetale mediante CTG non assuma rilievo medico-legale, sia perché questa fu eseguita fino alla fase di dilatazione completa della cervice uterina con risultato rassicurante, sia per i limiti di validità della metodica in questione, soprattutto durante il secondo stadio del parto.

La causa della sofferenza ipossico-afittica del neonato, dunque, si sarebbe verificata alla fine del periodo espulsivo a causa di un giro di cordone stretto attorno al collo del nascituro, evento imprevedibile ed inevitabile, che limitò l’apporto di ossigeno al feto e causò i danni alla salute lamentati da parte attrice.

Si adduce la carenza di motivazione là dove la sentenza assume la mancata sorveglianza da parte del medico del benessere fetale durante l’ultima fase del parto, da un lato, sulla base di prove documentali che non esistono e, dunque, su una prova negativa ed inesistente (il silenzio della cartella clinica) e, dall’altro, sulla prova testimoniale dell’infermiera presente al parto che, “tutto sommato”, non era così dirimente della responsabilità del medico/ginecologo.

Si denuncia il mancato svolgimento del giudizio controfattuale, nell’ambito della fattispecie concreta, poichè né la sentenza, né la CTU, avrebbero motivato in ordine ad acquisizioni scientifiche indubitabili in forza delle quali poter affermare l’idoneità ex ante di un taglio cesareo eseguito d’urgenza ad impedire lo stato di successiva sofferenza del nascituro; né hanno verificato l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito consistente, nel caso concreto, nell’utilizzo di CTG che, infatti, non sarebbe stato in grado di accertare “del tutto” il giro di cordone stretto intorno al collo del feto.

Secondo la Suprema Corte, sul punto, la Corte di merito, nel caso concreto, con motivazione esaustiva ed esente da vizi logico-giuridici ha vagliato specificamente gli elementi costitutivi della fattispecie di inadempimento contrattuale dedotto – danno, condotta, nesso causale ritenendone la sussistenza secondo corretti principi.

In particolare la sentenza gravata dimostra di avere adeguatamente applicato il principio di diritto secondo il quale “mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento o l’insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio è, invece, onere della parte debitrice (il sanitario e la struttura in cui egli opera) provare la causa imprevedibile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 dell’11/11/2019; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del  26/7/2017).

Nel caso concreto, la Corte d’Appello – in adesione alle risultanze della CTU – ha ritenuto che la condotta del personale sanitario avesse determinato, “con elevato grado di probabilità”, gli esiti sfavorevoli osservati successivamente nel neonato mentre il ricorrente non aveva dimostrato l’esatto adempimento o l’impossibile adempimento per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Sottolinea la Corte che “in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 del 11/11/2019; Sez. 3 -, Sentenza n. 27561 del 21/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 12218 del 12/6/2015; Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/1/2010).

In relazione al danno, peraltro, la Corte di appello ha ritenuto pacifico inter partes che la cerebropatia neonatale debba ricollegarsi all’ipossia avvenuta intra partum a causa dello strozzamento da cordone ombelicale, e non prima, quando vi è stato un tracciamento diagnostico che evidenziava una situazione di normalità.

Quanto alla condotta colposa del sanitario, il giudice di secondo grado la identifica “nella mancata indicazione nella cartella clinica di qualsivoglia attività di indagine diagnostica nella fase finale del parto, idonea ad evidenziare in tempo utile una sofferenza fetale e nella conseguente mancata prova di un pronto intervento da parte del medico. Ciò in quanto, non sono state allegate alla cartella clinica, né prodotte dalle parti, le attività eseguite in sala parto dopo l’ultimo tracciato CTG delle ore 0,40, dacchè si poteva evincere una valutazione di normale decorso del parto solo fin quando le annotazioni in cartella sono state fatte (e dunque con riguardo al primo tracciato CTG e agli ultimi due – l’ultimo delle ore 0:40-), mentre per la fase finale del parto è mancata qualsiasi annotazione in cartella clinica delle attività medico-sanitarie espletate e, comunque, vi è una testimonianza circa la mancanza di adeguata sorveglianza da parte del medico sulla partoriente, lasciata nelle mani di un’ostetrica per assistere un’altra partoriente nel frattempo sopraggiunta in sala”.

L’omessa sorveglianza sul benessere fetale in un arco temporale di quarantacinque minuti non è collegata esclusivamente al fatto che non risultino ulteriori CTG ma ad ulteriori dati obiettivi osservati, e in particolare al fatto che:

  1. i) non risulta essere stata effettuata l’auscultazione intermittente del battito fetale con stetoscopio di Pinard o strumento Doppler, da ripetersi ogni 15 minuti nel primo stadio del parto ed ogni cinque minuti nel secondo stadio come  consigliato da tutte le più autorevoli linee guida internazionali e nazionali, comprese le “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza ed al parto normale in Regione Campania” (approvate dal Comitato tecnico-scientifico del Programma speciale D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 12, comma 2, lett. b) e pubblicate sul B.U.R.C. n. 41 del 15 settembre 2003);
  2. ii) la cartella clinica risulta carente anche del partogramma (grafico sostanzialmente imposto dalle richiamate “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza e al parto normale in Regione Campania”), pacificamente non compilato, che invece avrebbe dovuto contenere l’annotazione non solo della dilatazione della cervice (dato comunque rilevabile dalla cartella clinica), ma anche del livello della testa fetale rispetto al canale del parto, oltre che le misurazioni del battito cardiaco fetale, della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca materna, del colore del liquido amniotico ed ogni altra indicazione utile circa l’andamento del travaglio (p. 9 della sentenza impugnata).

La Corte, infine, precisa, sul piano della causalità giuridica, che la sentenza della Corte di appello ha fatto il ragionamento dovuto, dando rilievo alla circostanza che la condotta medica avrebbe dovuto, nelle circostanze concrete, essere “vigile e operosa” e “nel rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti tecnici della professione sanitaria, anzichè attendista e negligente”.

Il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe, quindi, potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi dell’ipossia. Il comportamento omissivo del personale sanitario, pertanto, dà luogo a responsabilità perché gli indicati accertamenti, se disposti, avrebbero posto in evidenza, via via, la progressione del feto nel canale del parto ed i segni di sofferenza fetale, offrendo così al medico maggiori possibilità di avvedersi per tempo della reale condizione in cui versava il feto, e di comportarsi di conseguenza.

Il ritardo nel porre in essere ogni attività necessaria per salvaguardare la salute del feto ed il mancato rispetto delle linee guida sono da considerare, quindi, atti di negligenza. La Corte di merito, sotto tale profilo, ha ritenuto indimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento dedotta dal medico (e ciò in relazione a tutte le sopra menzionate circostanze di inadempimento ad esso imputabili e valutate nel caso concreto).

Con giudizio controfattuale ha ritenuto che la condotta di sorveglianza cui egli era tenuto, nei fatti mancata, sarebbe stata astrattamente idonea ad evitare, con alta probabilità, l’evento di danno o quanto meno a ridurne le conseguenze. In particolare, la Corte ha ritenuto che “non è sufficiente, al fine di escludere la responsabilità del medico, accertare l’insorgenza di una complicanza, ma se ne deve dimostrare l’imprevedibilità e l’inevitabilità, nonchè l’adeguatezza  della  condotta  del medico per porvi rimedio.”

Come il mancato raggiungimento di tale  prova, anche il mero dubbio sull’esattezza di tale adempimento, ricade a carico della struttura sanitaria e del medico. A ciò si aggiunga che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui, anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato.

Principi che operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico tra la sua condotta e le  conseguenze dannose subite. Il corretto adempimento della prestazione sanitaria, quindi, avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale e anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi  dell’ipossia.

Nel campo medico-sanitario, sottolinea la Suprema Corte, sussistono due cicli causali da considerare, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. La prova della causalità materiale spetta al danneggiato e consiste nella prova, anche presuntiva, del rapporto di causa – effetto tra la prestazione professionale e la situazione patologica.

Tale prova può essere raggiunta in via presuntiva anche per il tramite di una cartella medica compilata in maniera incompleta, posto che tale circostanza non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.

La prova della causalità giuridica spetta, invece, al danneggiante il quale, ove il creditore abbia assolto al suo onere probatorio, deve dimostrare l’esatto adempimento ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, – oppure l’intervento di una causa esterna, imprevedibile alla stregua dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c., comma 1, ed inevitabile sotto il profilo strettamente oggettivo e causale.

Redazione Nurse Times

Fonte: Medicalive Magazine

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