In totale, a dichiararsi in burnout è il 49,6% del campione. Percentuale che sale al 52% quando si parla di medici e scende al 45% nel caso degli infermieri. In entrambi i casi l’incidenza è superiore del doppio tra le donne, dove permane la difficoltà di coniugare il tempo di lavoro con quello assorbito da figli e famiglia in genere.
A influire sullo stato di stress cronico è anche il fattore età, visto che sotto i trent’anni la percentuale di chi è in burnout cala al 30,5%. Fatto è che proiettando i dati più che significativi delle medicine interne sull’universo mondo dei professionisti della nostra sanità pubblica abbiamo oltre 56mila medici e 125.500 infermieri che lavorano in burnout. E che per questo motivo incappano in qualche inevitabile errore.
Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla Fnopi stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri pubblici operanti in Italia in burnout da altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila. Sicuramente qualcuno in più, considerando che uno stesso operatore può essere incappato in più di un errore nel corso dell’anno.
“L’influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica – afferma Francesco Dentali, presidente Fadoi (Federazione dei medici internisti ospedalieri)
-. Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20% quando l’orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35% quando si arriva a farne 70. Evento sempre meno raro con il cronico sottodimensionamento delle piante organiche ospedaliere”.“Il lavoro sanitario ai tempi del burnout nuoce tanto alla salute dei cittadini che a quella di medici e infermieri – commenta Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi -. Un problema tanto più sentito nei reparti di medicina interna, che una anacronistica e vetusta classificazione ministeriale con il codice 26 definisce ancora a bassa intensità di cura, quando basta scorrere l’elenco delle cartelle cliniche per capire che i nostri sono pazienti complessi che necessitano di medio-alta intensità di cura”.
Redazione Nurse Times
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