Sostenibilità del sistema salute: il ticket non basta. Dagli Usa una soluzione (forse) più efficiente

Di seguito un’interessante analisi economica proposta da Milano Finanza.

L’approvazione della Legge di Bilancio 2024, combinata con l’anniversario dei 45 anni del Servizio sanitario nazionale, ha riacceso il dibattito sull’adeguatezza delle risorse per la salute in Italia, con toni analoghi a quelli della discussione sulla crisi climatica: servono molte più risorse, subito, prima che sia troppo tardi.

Toni apocalittici generano reazioni minimaliste, rassegnato catastrofismo o, nel migliore dei casi, un approccio incrementale, come quello della Legge di Bilancio: si cercano un po’ di soldi. Ma così si rinvia l’unica discussione utile, cioè come impostare un sistema sanitario il più efficiente e universale possibile in un contesto di risorse scarse e – tra nuovo Patto di stabilità e tassi di interesse elevati sul debito – decrescenti.

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Il primo errore in questo dibattito è guardare soltanto all’entità della spesa sanitaria. La spesa pubblica in Italia, dati Ocse 2022, è poco più di 2.200 euro pro capite, e al 6,8% del Pil, più bassa che in Francia (10,3%) o Germania (10,9%). Questa differenza però può significare che il sistema italiano è sotto-finanziato o che è più efficiente. E molte ragioni spingono a dire che è più efficiente perché più universale e meno frammentato. Quello che fa salire i costi è soprattutto la segmentazione e la selezione avversa che lasciano al pubblico i pazienti più anziani e costosi e al privato quelli più sani e remunerativi.

La Legge di Bilancio 2024 aumenta il fabbisogno sanitario nazionale di 3 miliardi e lo porta a 134 miliardi nel 2024, per salire a 135,7 nel 2026. Questo aumento ci dice ben poco per due ragioni. La prima è che il sistema sanitario in Italia è già da tempo misto pubblico-privato, nel senso che gli italiani pagano di tasca loro (out of pocket) circa 41 miliardi, quasi un quarto della spesa sanitaria complessiva. Dunque, bisognerebbe considerare il costo complessivo della salute in Italia rapportato ai risultati, non soltanto una delle variabili (la dotazione del fondo nazionale).

La seconda ragione per non concentrarsi troppo sul fabbisogno nazionale è che se andiamo a vedere per cosa vengono impiegate le risorse aggiuntive nella Legge di Bilancio vediamo che si tratta di un mero aumento di costi quasi a parità di prestazioni, a tutto beneficio degli operatori e non dei pazienti: incrementi delle tariffe orarie per le prestazioni aggiuntive del personale medico, innalzamento dei tetti di spesa per acquistare prestazioni dai privati, aumenti ai tetti per la spesa farmaceutica. Tutte misure che, dopo due anni di inflazione, finiranno per ricostituire i margini dei privati fornitori della sanità pubblica, non certo per ridurre le liste d’attesa e aumentare i servizi.

Questi interventi hanno un’altra caratteristica comune: aumentano il costo dell’inefficienza del pubblico, senza che si faccia assolutamente nulla per ridurla (l’unica misura in questo senso, cioè la cancellazione di un ingiusto privilegio contributivo per le pensioni dei medici, è stata ritirata). Chiunque frequenti gli ospedali nota modalità di gestione che dovrebbero essere inaccettabili in questo secolo: cartelle cliniche cartacee, parametri annotati a penna su foglietti volanti, primari che compilano a mano fogli di dimissioni, assenza di ogni standard condiviso di comunicazione e trattamento persino all’interno della medesima struttura.

Rendere più costoso il ricorso al privato, reso inevitabile non solo dalle risorse scarse, ma dall’assenza di ogni pensiero strategico, peggiorerà la paralisi. Ormai persino gli assicuratori privati protestano per avere un servizio sanitario pubblico più efficiente: le liste d’attesa infinite nel pubblico spingono sempre più persone a sottoscrivere assicurazioni private e, a differenza che in passato, a usarle al massimo, col risultato che i premi salgono ma i margini per gli assicuratori si riducono. Gli assicuratori vorrebbero assicurare pazienti perlopiù sani che usano le prestazioni garantite in casi rari, non in maniera sistematica.

Negli Stati Uniti gli economisti Amy Finkelstein (Mit) e Liran Einav (Stanford) stanno cambiando la prospettiva del dibattito sulla salute: propongono di smetterla con le soluzioni incrementali (tipo Obamacare), azzerare tutto il sistema sanitario basato sulle assicurazioni e impostare un servizio sanitario pubblico universale che garantisca a tutti prestazioni di base. Chi può permetterselo paga a parte le altre.

Finkelstein ed Einav, dopo anni di ricerche empiriche, smontano anche uno dei pilastri del senso comune sanitario: chiedere ai pazienti di sostenere una parte del costo delle prestazioni riduce la domanda, è vero, ma alla fine costa più (tra burocrazie e inefficienze) che offrire prestazioni di base a titolo completamente gratuito. Quelli che in Italia si chiamano ticket, insomma, contribuiscono a ridurre l’efficienza, non ad aumentarla.

Invece di guardare in modo ossessivo alle percentuali di spesa pubblica per la sanità sul Pil o al fabbisogno sanitario nazionale, anche in Italia servirebbe l’approccio di Finkelstein ed Einav: separare in modo chiaro le prestazioni che la sanità pubblica deve erogare da quelle che non può sostenere, in modo che un qualche diritto alla salute sia davvero garantito, mentre oggi si preferisce promettere tutto e mantenere poco o niente. Morale: per salvare il Servizio sanitario nazionale, forse, bisogna assumere qualche medico in meno e qualche economista in più, e preoccuparsi di come si spendono le risorse disponibili molto più che della loro entità complessiva.

Redazione Nurse Times

Fonte: Milano Finanza

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