“Sono 802mila i casi registrati nella prima settimana del 2018, per un totale, dall’inizio della sorveglianza, di circa 3 milioni di casi. Lo stesso si osserva anche attraverso la sorveglianza dei casi gravi confermati di influenza, ricoverati in terapia intensiva, che dall’inizio della sorveglianza (settembre 2017) sono in totale 170, di cui 30 deceduti”.
Questi i dati riportati dal portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità, a proposito dell’epidemia influenzale in corso. È proprio dai dati che bisogna partire per cercare di spiegare perché valga la pena vaccinarsi contro l’influenza e perché, nel farlo, non si debba pensare solo a proteggere se stessi, ma anche chi, tra chi ci sta accanto, è più debole o fragile.
Nel portare avanti il dispiegarsi del filo logico delle mie riflessioni a proposito di questi dati è venuto in mia aiuto un articolo pubblicato, proprio in questi giorni, sul New York Times a firma di Aaron E. Carroll, professore di Pediatria della facoltà di Medicina dell’Università dell’Indiana. In questo articolo Carroll cerca di spiegare perché sia necessario che le persone, anche quelle cosiddette non a rischio, si vaccinino. Egli sostiene che uno dei maggiori problemi nel cercare di convincere le persone a immunizzarsi e a fare il vaccino antinfluenzale è che non ne sentano realmente la necessità, né tantomeno la pressione. Basta leggere i commenti feroci sui social, pro o contro, per rendersi conto di quanto il pensiero del professor Carroll sia veritiero.
L’influenza si diffonde facilmente. Nel 2014, secondo i dati del CDC (Centro per la Prevenzione e il Controllo delle malattie) di Atlanta, oltre 57mila persone sono morte di influenza/polmonite. Per quell’anno l’influenza è stata l’ottava, tra le cause di morte più comuni, ma anche quella, fra le prime dieci, più facilmente prevenibile. Si pensi, come ci ricorda sempre Carroll, che nello stesso anno una delle malattie a cui si accompagna una stigmatizzazione come poche altre, ossia l’HIV, ha contato poco più di 6.700 decessi. Eppure le persone continuano a temere l’HIV molto più dell’influenza.
“È possibile – afferma Carroll – che così tanti adulti ignorino il pericolo perché raramente li colpisce direttamente. La maggior parte delle ospedalizzazioni e delle morti avvengono tra i bambini e gli anziani. Le percentuali di ospedalizzazione di coloro che hanno meno di 5 anni di età sono il doppio di quelle degli adulti sotto i 50 anni. Le percentuali tra coloro che hanno superato i 65 anni possono essere 10 volte superiori a quelle degli altri adulti. Quasi i due terzi dei decessi si verificano tra le persone anziane”.
Il CDC ha stimato che nella stagione influenzale 2015-2016, solo negli Stati Uniti, il vaccino antinfluenzale ha prevenuto oltre cinque milioni di casi di influenza, circa 2,5 milioni di visite mediche, oltre 70mila ricoveri e almeno 3mila decessi. Il succo del discorso è quindi che non ci si vaccina solo per proteggere sé stessi, ma anche e soprattutto per proteggere i bambini e i neonati, gli anziani e le persone immuno-compromesse. Questo è vero per quasi tutte le malattie, compresa l’influenza. E questo dovrebbe essere anche un imperativo “etico” per chi, come noi, fa del prendersi cura degli ammalati il proprio lavoro.
Rosaria Palermo
https://www.epicentro.iss.it/problemi/influenza/InfluenzaStagionale2017-18.asp
https://mobile.nytimes.com/2018/01/15/upshot/flu-shot-deaths-herd-immunity.html?referer=https://m.facebook.com/
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