Il Parkinson è una malattia neurologica degenerativa che colpisce in genere i soggetti in età adulta. Si calcola che in Italia vi siano circa 200-250 mila persone affette da malattia di Parkinson, che si manifesta con sintomi motori, fra cui lentezza nell’esecuzione dei movimenti volontari, tremore agli arti e rigidità muscolare. Vi sono anche disturbi non motori fra cui i disturbi del sonno e del tono dell’umore che possono anche precedere la comparsa dei sintomi motori.
Negli ultimi decenni l’incidenza della malattia di Parkinson è raddoppiata, e ciò sembra essere in relazione all’aumento della sopravvivenza della popolazione e a fattori ambientali. Un recente studio ha dimostrato la presenza di alcuni fattori di rischio (storia familiare di PD, dispepsia, esposizione a pesticidi, metalli e anestesia generale). Altri fattori quali il consumo di caffè, il fumo e l’attività fisica svolgono invece una attività protettiva.
L’alterazione patologica caratteristica della malattia di Parkinson consiste nella perdita dei neuroni dopaminergici a livello del tronco cerebrale. I processi biologici che causano tali alterazioni sono molteplici e includono l’accumulo di alfa-sinucleina, un’alterata funzione dei mitocondri, la predisposizione genetica, l’esposizione a tossici ambientali, la presenza di neuroinfiammazione e lo stress ossidativo.
Il meccanismo più recentemente oggetto di studio riguarda la sinucleina. Da alcuni anni si ritiene che la malattia di Parkinson coinvolga la proteina alfa-sinucleina fisiologicamente presente nel sistema nervoso. Si tratta di una proteina ubiquitaria nel nostro organismo, che va incontro a processi di degradazione, e che si accumula in forma tossica per le cellule nervose.
Si ritiene che l’accumulo di aggregati proteici, alterati nella loro conformazione abbia quindi un ruolo causale nella perdita dei neuroni cerebrali e nella progressione della malattia. In alternativa è possibile che venga meno la normale funzione che la sinucleina esercita nel nostro organismo, che è quella di essere coinvolta nei meccanismi di plasticità e di comunicazioni fra cellule nervose.
Recenti studi hanno dimostrato, inoltre, che la malattia di Parkinson è caratterizzata da una marcata eterogeneità nella sintomatologia clinica (e da una complessa genetica con più di 20 geni alterati). I meccanismi biologici alla base della malattia possono pertanto essere diversi nei vari sottotipi di malattia e potrebbero anche variare con la progressione di malattia.
Possiamo quindi utilizzare un semplice campione biologico, quale la saliva, nella diagnosi di malattia di Parkinson fin dall’inizio della malattia e nella diagnosi differenziale con altre forme di parkinsonismo. Inoltre sempre nella saliva è stato possibile dosare altre sostanze dimostrando come nella malattia di Parkinson avvengano modificazioni di tipo infiammatorio, oltre quelle di tipo degenerativo.
La possibilità di favorire l’eliminazione di aggregati proteici patologici ha stimolato nuove strategie terapeutiche per la malattia di Parkinson. Ciò potrebbe avvenire attraverso la stimolazione dei normali meccanismi cellulari di degradazione degli aggregate proteici patologici (il Sistema della ubiquitina protosomiale e l’autofagia). Sono in corso vari studi che utilizzano farmaci che agiscono sui sistemi di degradazione proteica (nel tentativo di eliminare gli aggregate tossici).
La levodopa è la terapia di scelta sia per i disturbi motori che per quelli non motori. Tale terapia tuttavia negli anni si associa a complicazioni motorie. È ormai stabilita la necessità di avere terapie farmacologiche che consentano una stimolazione dopaminergica costante e fra queste molto efficace è l’infusione intradigiunale di levodopa. Tale procedura terapeutica richiede tuttavia un intervento chirurgico.
Alcune formulazioni di levodopa sono attualmente in studio attraverso una somministrazione sottocutanea e così pure la somministrazione cronica sottocute di apomorfina. In un recente studio su Neurology è stato studiato l’effetto di una soluzione concentrata di carbidopa/levodopa somministrata per via sottocutanea dimostrando che gli effetti farmacocinetici erano simili alle somministrazioni intradigiunali.
Recentemente è stata dimostrata l’efficacia degli ultrasuoni guidati con la risonanza magnetica (FUS), tecnica che consente di effettuare una coagulazione termica senza apertura della teca cranica. Un recente studio ha dimostrato come in pazienti con malattia di Parkinson e prevalente tremore la talamotomia da FUS è in grado di ridurre il tremore e nello stesso tempo di ridurre la dose di farmaci dopaminergici utilizzati.
Redazione Nurse Times
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