Moral distress: cos’è e perché è così diffuso tra gli infermieri

Cinquantacinque anni, Roberta Dawkins (ma avrebbe potuto chiamarsi Maria Rossi) viene ricoverata al pronto soccorso con dolori lancinanti allo stomaco e poco dopo gli viene diagnosticata un’ulcera peptica. (Ci troviamo in un reparto chirurgico come tanti, con 35 pazienti e con in turno quattro infermieri, un OSS e un amministrativo). Tra questi infermieri Martha Keller (ma avrebbe potuto chiamarsi Francesca Bianchi), infermiera con tre anni di esperienza medico-chirurgica, a cui viene assegnata la signora Dawkins insieme ad altri sette pazienti, di cui tre in post-operatorio al primo giorno, tre con problemi medici complessi, e uno in attesa di dimissione.

Durante il turno dell’infermiera Keller, la signora Dawkins più volte aveva fatto ricorso al pulsante di chiamata, per ribadire che aveva dolore e chiedere aiuto. L’infermiera aveva potuto vedere che la sua paziente era sempre più preoccupata ed in difficoltà e che il suo dolore non era stato affatto alleviato dai farmaci prescritti dal medico di guardia. Intanto la signora Dawkins stava diventando diaforetica, la sua pressione sanguigna stava aumentando e la saturazione dell’ossigeno stava scendendo. Dopo aver chiamato inutilmente il medico invitandolo a rivedere la paziente, la collega informava il Coordinatore infermieristico della situazione, documentando la sua valutazione nella cartella clinica elettronica della paziente.

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Con così tanti pazienti da assistere  l’infermiera Keller si sentiva dilaniata su come assolvere al meglio alle sue responsabilità professionali per ciascuno dei suoi pazienti. Sentiva di non poter fornire un’assistenza sicura e di alta qualità a nessuno dei suoi pazienti, e sentiva anche che stava fallendo come professionista che aveva preso in carico la signora Dawkins. Alla fine del suo turno, l’infermiera Keller aveva confidato ad un’altra collega,

Come posso considerare me stessa una ‘buona infermiera’ in queste circostanze? Dovrei aiutare i miei pazienti, non fare loro del male!

Questa situazione comune nel suo ospedale (come in molti dei nostri ospedali purtroppo!), aveva fatto sì che molti dei suoi colleghi fossero oramai esausti arrivando a pensare di abbandonare il posto di lavoro e la professione.

Ogni giorno, in un’ampia varietà di circostanze, infermieri in tutti i ruoli e le specialità si confrontano con questioni etiche complesse che mettono in discussione la loro integrità. Essi hanno difficoltà a bilanciare gli obblighi di assistenza che debbono ai loro pazienti e alle loro famiglie, ai colleghi del team sanitario, all’organizzazione per cui lavorano, alla loro comunità e a se stessi.

Spesso lavorano all’interno di sistemi sanitari che sono sostenuti solo da preoccupazioni finanziarie e che minano alla base l’assistenza centrata alla persona ed in questo contesto molti infermieri si struggono nel tentativo di mantenere la loro integrità personale e professionale. Quando non sono in grado di tradurre le loro convinzioni morali in azioni eticamente concrete allora l’angoscia morale diventa inevitabile”.

Siamo portati a credere come persone, ancorché come professionisti, che la specificità del vissuto di ciascuno di noi non sia sovrapponibile a quello di un altro individuo e/o professionista, tanto più se “quest’altro” vive e lavora in contesti apparentemente migliori del nostro, ma come ci dimostra la storia della collega appena accennata, così non è!

Leggere l’articolo “Moral Distress: A Catalyst in Building Moral Resilience – Helping nurses move from victimization to empowerment”, (Il Disagio Morale: un catalizzatore per la resilienza, aiutare gli infermieri a passare dal vittimismo all’empowerment) scritto dalle colleghe d’oltremanica Cynda Hylton Rushton, Meredith Caldwell, e Melissa Kurtz, è stato catartico ed istruttivo.

Mi ha costretta ad analizzare un problema diffuso (più di quanto pensassi e non solo qui in Italia),  che comincia a dare i suoi frutti avvelenati per i professionisti che vivono sulla loro pelle il “disagio morale” e per i pazienti che assistono.

Come abbiamo potuto notare dalla storia  dell’infermiera Keller, l’incapacità di agire in linea con i propri valori morali può determinare sentimenti di frustrazione pericolosi che possono portare anche all’abbandono della professione.

Le autrici di questo articolo offrono a ciascuno di noi un modo diverso di intendere il disagio morale, che il più delle volte si caratterizza per l’emergere di sentimenti di impotenza e vittimismo, puntualizzando come anche le situazioni che danno luogo al disagio morale sono in grado di fornire un’opportunità di crescita, emancipazione, e una maggiore capacità di recupero morale.

Questo articolo descrive il concetto e la prevalenza del disagio morale, il suo impatto, e discute le pratiche promettenti e gli interventi per superare questo problema.

Negli Stati Uniti questo problema è diventato oggetto di numerose trattazioni, non solo scientifiche.

Si pensi che alla ricerca di soluzioni un gruppo di 46 professionisti, medici, infermieri, rappresentanti di svariate organizzazioni, si sono riuniti a Baltimora l’11-12 Agosto scorso per un intenso laboratorio in cui si è dibattuto il tema del Moral Distress e di come affrontarlo al meglio, identificando gli elementi essenziali, le iniziative e i modelli utili per sviluppare la resilienza e la creazione di ambienti di lavoro sani che possano promuovere sicurezza, qualità delle cure per i pazienti e le loro famiglie.

Ma cos’è nello specifico questo Disagio Morale che viene sempre più esperito da un gran numero di Infermieri?

Il termine Moral Distress o Disagio Morale è stato coniato dallo studioso di Etica Andrew  Jameton, per descrivere i sentimenti negativi che sorgono quando si decide su un’azione moralmente corretta da tenere in una data situazione, ma che non viene messa in pratica.

Jameton ha identificato due componenti distinte di disagio morale: disagio iniziale e angoscia reattiva, che si ha dopo che la situazione è passata e coinvolge sentimenti persistenti sulla propria incapacità di agire nella fase di disagio iniziale. Questa angoscia reattiva è stata associata con una perdita di identità morale personale e con effetti negativi a lungo termine.  Il disagio morale si differenzia da altri tipi di stress lavoro correlati come il burnout, e la stanchezza e/o lo stress psicologico, infatti il Disagio Morale, si verifica quando si riconosce la propria responsabilità morale in una situazione avendo ben chiaro cosa fare ma non riuscendo nell’atto pratico a fare ciò che si era pianificato; tutto questo determina l’erosione dell’integrità personale, e può minare profondamente l’identità del professionista e della persona.

Per alcuni studiosi ed in particolare per Pniewski e Hallett, l’angoscia morale è “la capacità di un individuo di sostenere o ripristinare la sua integrità in risposta alla complessità morale, la confusione, l’angoscia, la battute d’arresto”, proponendo una serie di proposte per trasformare il Disagio Morale in Resilienza:

  • sapere chi sei e come ti rappresenti nella vita;
  • impegnarsi continuamente alla scoperta di sé e dei propri valori e in alcuni casi alla revisione degli stessi;
  • coltivare le capacità di autoregolamentazione;
  • essere sensibile e flessibile in situazioni etiche complesse;
  • avere la capacità di discernere i confini di integrità includendo l’esercizio delle obiezioni di coscienza;
  • esercitare la capacità di essere risoluti e coraggiosi nella propria azione morale nonostante la resistenza o gli ostacoli;
  • essere in grado di discernere quando si è esercitato lo sforzo sufficiente a soddisfare i propri obblighi etici ed essere al contempo realistici circa i propri limiti e le costrizioni e le pressioni esterne;
  • cercare un significato in mezzo a situazioni che minacciano la propria integrità o causare dissonanza con la propria sensibilità morale.

Il concetto di resilienza morale continua ad evolversi; ulteriori indagini sono necessarie per promuovere la comprensione dei suoi contorni e del suo impatto sul Disagio Morale.

Ma cosa possono fare concretamente gli Infermieri per fronteggiare questo Disagio Morale che sempre più viene percepito nei luoghi di lavoro?

Come ci dimostra il caso illustrato in apertura, molti infermieri non sono sufficientemente in grado di riconoscere, individuare e agire in situazioni moralmente angoscianti e allora ecco che il primo passo è quello di riconoscere il Disagio Morale e prenderne consapevolezza, riflettere ed essere curiosi e dare un nome al dilemma etico che ci viene posto dinnanzi, riflettere in maniera positiva sulle motivazioni che ci hanno spinto a scegliere questa professione, impegnandosi per ritrovare il benessere personale smarrito. Imparare a stare in ascolto del proprio corpo ed il proprio intuito e a confrontarsi con gli altri professionisti di cura che lavorano accanto a noi in maniera pro-attiva e aperta sviluppando al meglio le doti comunicative. Per finire sarebbe utile sviluppare competenze etiche  per riuscire a discernere le situazioni e contribuire alla pratica etica.

Molte sono le cose su cui riflettere per trasformare un Disagio profondo come quello morale in opportunità di miglioramento. Il Codice etico degli Infermieri americani afferma: “L’infermiere deve a sé gli stessi doveri che mette in campo per gli altri, tra cui la responsabilità di promuovere la salute e la sicurezza, salvaguardare la propria unicità ed integrità, mantenere aggiornate le proprie competenze, e continuare la sua crescita personale e professionale”.

Concludono gli autori con un incoraggiamento che vorrei potesse essere un motto per tutti gli infermieri italiani: “Gli infermieri possono fare un passo avanti in un modo nuovo, uno che riflette il loro libero arbitrio e il coraggio”.

La situazione in cui si trovano a dover lavorare migliaia di infermieri nel nostro Paese non è dissimile da quella sperimentata dalla collega americana, ed è qualcosa di assai più complesso da poter essere racchiuso in un termine come “demansionamento”, (che pure esiste e andrebbe affrontato una volta per tutte!), è un disagio profondo che logora giorno dopo giorno le motivazioni di migliaia di professionisti, minando non solo la propria professionalità, ma cosa ancor più grave la propria identità di persone.

Quindi è ora di fare un passo avanti e di fare di questa crisi un’opportunità di crescita che rifletta il nostro libero arbitrio come professionisti, con coraggio.

Rosaria Palermo

Fonti

journals.lww.com

ajnoffthecharts.com

 

Rosaria Palermo

Infermiera dal 1994. Attualmente, infermiera specialista del rischio infettivo presso l'ARNAS Garibaldi di Catania. Ho una laurea magistrale e due Master, uno in Coordinamento e l'altro in Management del rischio infettivo. Faccio parte del Direttivo di ANIPIO (Società Scientifica degli Infermieri Specialisti del Rischio Infettivo) dal 2016. Penso che lo scatto nella nostra professione debba essere culturale, prima di ogni cosa. Nelson Mandela diceva che la conoscenza è l'arma più potente di cui gli esseri umani dispongano, ed è ciò che permetterà alla nostra professione di ritagliarsi gli spazi che le competono.

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