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Lo sfogo di una futura infermiera: “La professione deve evolversi”

Riceviamo e pubblichiamo un contributo a opera di Chiara Tomei, studentessa di Infermieristica al secondo anno.

Purtroppo ci sono ancora tanti pregiudizi sulla figura infermieristica. Spesso mi capita di sentire: “L’infermiera è sotto il medico”. Anche no. Si parla di equipe multidisciplinare: non parliamo di gerarchie. Infermiera, medico e oss sono tre figure professionali diverse, con una formazione alle spalle differente, ma che collaborano per un unico fine: il benessere dell’assistito.

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Preciso però “differente” perché ultimamente la Regione Veneto ha istituito una nuova figura, un po’ borderline, quella del cosiddetto super oss. Per chi non lo sapesse, si tratta di un oss che può svolgere attività in più rispetto a quelle previste per il suo specifico profilo (ad esempio la terapia intramuscolare e sottocutanea), svolte sotto la supervisione infermieristica. Personalmente, penso che la Regione Veneto, con questa nuova figura, abbia contribuito alla ulteriore svalutazione degli infermieri.

Se avessi voluto diventare ricca, non avrei scelto di diventare infermiera. Ma ogni giorno, quando esco dal turno di tirocinio, penso che non avrei mai potuto fare altro. Esco dall’ospedale più arricchita di quando sono entrata, mi sento appagata. È certamente una professione che, se esercitata con il cuore, ti ripaga di ogni sacrificio. Sottolineo “se esercitata con il cuore” perché questo è fondamentale. A mio avviso non la si può scegliere se non vi si è predisposti, motivati e appassionati.

Perché, come dico sempre, i pazienti lo sentono. Sentono, per esempio, se non ricevono niente in termine di affetto, rassicurazione e cura. Perché l’infermiera non è solo colei che somministra la terapia farmacologica, ma è responsabile di un’assistenza che si basa anche sul rapporto e sul dialogo col paziente. Non a caso il nostro codice deontologico ci dice che il tempo di relazione è tempo di cura.

Ma adesso parlo da studentessa universitaria del secondo anno di Infermieristica. Servono modifiche nella didattica e nei tirocini, serve evoluzione. Il tirocinio del primo anno del corso di laurea, nella maggior parte delle università italiane, è incentrato sull’apprendimento della mansioni igienico-alberghiere. Okay, anche quelle vanno conosciute.

Ma per legge al primo anno i tutor non potrebbero farti svolgere procedure infermieristiche come prelievi venosi, preparazione e somministrazione della terapia farmacologica e inserimento dei CVP. Solo durante il tirocinio del secondo anno puoi iniziare a svolgere procedure infermieristiche. Il problema è che ti sei “perso” quasi un anno. E due anni (secondo e terzo) non bastano per acquisire la giusta manualità. Quindi tanti infermieri neo-laureati non si sentono pronti a lavorare in autonomia, non si sentono ancora al 100% infermieri.

Dopo la laurea triennale, si possono intraprendere dei master, cioè delle “specialistiche” di breve durata che ti indirizzano verso un determinato settore dell’ infermieristica. Ma purtroppo non vengono totalmente riconosciuti. Vale a dire, per esempio, che puoi anche consguire un master in Infermieristica pediatrica, ma non è automatico che tu vada a lavorare in Pediatria.

Anche per questi motivi – e aggiungiamoci lo stipendio più basso d’Europa – i dati dicono la professione infermieristica non è più appetibile per i giovani. Proprio nei giorni scorsi il sindacato Nursing Up ha pubblicato il risultato di un questionario rivolto agli infermieri di tutta Italia. Ne è emerso che il 33% di loro desidera abbandonare la professione. Da semplice studentessa, sono numeri che mi spaventano: 33 persone su 100 sono tante, troppe.

Se non rivalutiamo sia sul piano economico sia sul piano professionale la nostra figura, che rappresenta un pilastro della sanità, la qualità dei servizi sanitari erogati si abbasserà notevolmente, in quanto il numero degli infermieri in Italia sarà sempre più ridotto, e quei pochi che continueranno a svolgere la professione lavoreranno in condizioni inaccettabili e saranno meno motivati, visto anche l’irrisorio stipendio che percepiscono. Serve un cambio di rotta.

Chiara Tomei

Redazione Nurse Times

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