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L’insoddisfazione lavorativa della figura infermieristica

Riceviamo e pubblichiamo un interessante contributo della dott.ssa Monica Cardellicchio.

Tutti i lavori implicano impegno e sacrificio. Tuttavia, quando si rientra a casa, un conto è sentirsi stanchi ma soddisfatti della propria giornata, un conto è percepire che la posizione ricoperta non produce alcun beneficio sotto il profilo della realizzazione personale.

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Se non ci si sente appagati del proprio lavoro è normale porsi delle domande, dubitare di se stessi e delle proprie capacità, nonostante le competenze acquisite attraverso la laurea magistrale, i master e i corsi di aggiornamento. Questo tipo di situazione è particolarmente complessa da gestire perché da un lato c’è l’esigenza di guadagnarsi uno stipendio per mantenere la propria famiglia, pagare mutuo e bollette, dall’altro lato si vorrebbe vivere la vita diversamente, sentirsi realizzati e coltivare le proprie passioni.

Ultimamente nella professione infermieristica si sta manifestando un’insoddisfazione lavorativa. Secondo Locke, la soddisfazione lavorativa è “uno stato emotivo positivo (emozione) risultante dalla percezione (cognizione) della propria attività lavorativa (comportamento)”. Possiamo considerarla come la somma di tre componenti fondamentali, che elenchiamo di seguito.

  • Valori personali connessi al lavoro: ciò che l’individuo assegna soggettivamente alla sua esperienza professionale
  • Importanza: differenze individuali dei valori e dei significati verso il lavoro e per la rilevanza assegnata
  • Percezione: valutazione individuale dell’ambiente organizzativo e del contenuto del lavoro, dei valori, delle attese, delle potenzialità e dei limiti soggettivi

In ambito infermieristico gli studi effettuati sulle caratteristiche del lavoro hanno voluto analizzare quanto la soddisfazione lavorativa e i relativi fattori condizionanti possano influenzare la scelta del lavoratore di lasciare la professione. Grazie a un’analisi psicodinamica della professione infermieristica, Alderson (2005) ha messo in evidenza la grande responsabilità degli infermieri, vissuta come un fardello in grado di generare ansia e sofferenza, poiché non va di pari passo con il riconoscimento, l’autonomia e il livello professionale richiesti.

Si rileva, inoltre, l’impossibilità di creare una vera comunità, a causa del carico di lavoro e della mancanza di spazi per il confronto. Per questo il personale infermieristico ha la sensazione di non essere ascoltato, di non utilizzare le proprie competenze e di essere svalutato, il che ostacola il percorso di ricerca di un’identità professionale.

Detchessahar e Grevin (2009), invece, hanno identificato le derive delle attività di informazione da parte della direzione verso i dipendenti, volte al miglioramento della gestione e tali da prevalere sulle attività comunicative, senza lasciare spazio alla discussione e all’espressione delle necessità dei dipendenti. Così facendo, la razionalità oggettiva di produzione e redditività sostituisce la razionalità soggettiva relativa al successo professionale, con una conseguente perdita di senso e del piacere di lavorare. Alderson (2005), invece, ha sottolineato la necessità di ripristinare il dialogo sociale e la fiducia tra i diversi attori dell’istituzioni.

Nei primi anni Ottanta alcuni ospedali attiravano l’attenzione per la loro capacità di assumere e mantenere il personale sanitario. Nasceva così il concetto di “ospedali magnete”, che presentavano un ambiente di lavoro psicosociale sano (Brunelle, 2009). In questi ospedali era possibile osservare una turnazione più leggera per il personale, un alto livello di soddisfazione sul lavoro, un maggior coinvolgimento, determinando così una minore incidenza del burnout e di abbandono della professione (Stordeur, D’Hoore, & The Next-Study Group, 2007).

Brunelle (2009) ha inoltre identificato otto dimensioni psicosociali e organizzative comuni a questi ospedali :

  • l’autonomia professionale;
  • il sostegno equo da parte dell’amministrazione;
  • la qualità della collaborazione tra infermieri e medici;
  • la valorizzazione professionale;
  • le relazioni positive tra colleghi;
  • una quantità di personale adeguato;
  • il ruolo centrale del paziente;
  • l’importanza e la qualità dell’assistenza.

Stordeur et al. (2007), invece, hanno identificato alcune caratteristiche di queste strutture, descrivendoli come ospedali in cui i gradi gerarchici sono più flessibili e il livello di confidenza tra i dipendenti è molto elevato. Pertanto gli sforzi per massimizzare il benessere dei dipendenti sono costanti, mediante compiti commisurati e significativi. In questo modo tali ospedali favoriscono le opportunità di carriera. La direzione si fa carico di un giusto equilibrio tra impegno e ricompense, promuovendo così l’adattamento psicologico al lavoro.

Le azioni che l’azienda dovrebbe applicare per permettere di valorizzare il personale sanitario sono le seguenti :

  • stili di direzione partecipativi;
  • cura dei rapporti interpersonali;
  • coinvolgimento del personale negli obiettivi di struttura;
  • coinvolgimento del personale nell’elaborazione delle misure dirette a superare le condizioni critiche;
  • evidenziazione diretta ed indiretta del lavoro del personale con gli obiettivi prefissati;
  • valorizzazione dei risultati positivi raggiunti, rendendo così visibile l’utilità della risorsa umana.

Bisogna però sottolineare che gli infermieri sono orgogliosi della propria professione e del proprio ruolo, ma sono delusi dalla mancanza di gratificazioni e dalla scarsa attenzione da parte della politica, in quanto sottoposti a carichi di lavoro crescenti ma critici sulla gestione del personale da parte delle aziende in cui operano.

Trattenere gli infermieri è ormai diventata una sfida per dirigenti e coordinatori infermieristici, dato che l’intenzione di lasciare l’ospedale è molto spesso associata all’effettivo turnover. Il loro impegno sarebbe soprattutto cercare di comprendere le ragioni per cui i giovani infermieri dichiarano di voler lasciare l’ospedale in cui sono stati inseriti, in modo da poter intervenire tempestivamente per per poterli trattenere.

Negli ultimi mesi centinaia di infermieri italiani hanno deciso di abbandonare la professione con dimissioni irrevocabili. Questo fenomeno di “palese insoddisfazione” sfocia spesso in fughe all’estero, alla luce di stipendi ben più gratificanti e prospettive di carriera ben diverse. Chi invece non abbandona per sempre la professione chiede di lavorare nella sanità privata, oppure decide di aprire la partita Iva per evitare di sottostare a regole massacranti, che spesso compromettono il proprio equilibrio personale o i propri rapporti con la famiglia.

Ci si dimentica, purtroppo, che dietro il camice di un infermiere ci sono uomini e donne, con famiglie, affetti, esigenze personali. Per questo motivo gli infermieri, hanno bisogno di essere gratificati economicamente, ma hanno anche la necessità di sentirsi apprezzati e tutelati dall’organizzazione in cui lavorano. Tale insoddisfazione lavorativa, a lungo andare, può inoltre portare a gravi conseguenze per la salute, come stress, depressione, malattie. Occorre, pertanto, che le strutture sanitarie si approccino a un vero cambiamento.

Il cambiamento deve essere attuato con le persone, e non sulle persone. Gli infermieri, infatti, devono mettere in pratica le competenze acquisite, in modo che l’azienda possa apprezzarle e valorizzarle, evitando così l’abbandono della professione e creando un contesto di benessere lavorativo. Per questo bisogna creare un’organizzazione che sviluppi una cultura a supporto del cambiamento (Paneforte, 1998). Come diceva Albert  Einstein, “Il mondo, così come l’ abbiamo creato, è un risultato del nostro pensiero: non possiamo cambiarlo, se non cambiamo il nostro modo di pensare”.

Dott.ssa Monica Cardellicchio

Redazione Nurse Times

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