Egregio direttore,
mi chiamo Annarita sono infermiera da 15 anni circa, le scrivo per esporre e condividere, con i miei colleghi, un sentimento penso comune a tanti, in questo attuale momento emotivamente duro in cui ci troviamo ad operare.
Quando sul posto di lavoro la nostra insoddisfazione e i nostri malumori non sono legati a un episodio, ma diventano un “rumore di fondo” che mina il nostro benessere, forse è giunta l’ora di chiedersi a malincuore se davvero vale la pena continuare a seguire il percorso lavorativo intrapreso.
Siamo lavoratori privilegiati perché possiamo lavorare dispensando sorrisi e amorevoli cure, occupandoci delle persone che soffrono, di chi gli sta attorno, però mentre fai ciò da tanti mesi oramai nella testa ronza un pensiero fisso: a noi infermieri chi ci pensa? Chi si occupa di noi, di noi come persone, perché a discapito di quanti possano pensare che nel percorso di studi ci facciano fare un corso sui poteri magici per sopravvivere a tutto e tutti, siamo persone umane. Siamo donne, uomini che ogni giorno quando poniamo la mano su quel badge per timbrare l’entrata, riponiamo i nostri malumori, dolori, sentimenti confusi tra gioia di fare il proprio lavoro e insoddisfazione, nella stessa borsa in cui riponiamo il cartellino e ci prepariamo tra i mille problemi a fare il nostro dovere sempre a testa alta, con dedizione, professionalità.
Però dentro, nel nostro profondo, quando ritorniamo a timbrare quell’uscita ci riviene in mente tutto il malumore e il sentimento di abbandono da parte di tutti che si ha, rendendosi conto che poco o niente importa degli effetti nefasti che tale lavoro nelle condizioni attuali, ha sulla salute dei professionisti sanitari.
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