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Ivano: un percorso lungo una vita dalla Sardegna all’America per sconfiggere la talassemia

Vi raccontiamo la storia di Ivano Argiolas, un ragazzo sardo, che per cercare di combattere la talassemia è volato fino a New York

Vi raccontiamo la storia di Ivano Argiolas; un ragazzo sardo, che per cercare di combattere la talassemia è volato fino a New York

Ci racconta dal suo punto di vista anche l’esperienza infermieristica vissuta in prima persona, un confronto tra la nostra realtà e quella americana.

Come ti chiami, dove sei nato?

Sono Ivano Argiolas, e sono nato a Cagliari.

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Com’è iniziato il tuo percorso con la talassemia?

La talassemia è una malattia genetica e quindi ereditaria, perciò sono nato così. Chi ha questa malattia ha bisogno di continue trasfusioni di sangue tutta la vita.

La mia prima trasfusione è stata a tre mesi.

Dai tre mesi a 7 anni sono stato seguito all’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari.

Nel 1981, con l’apertura dell’Ospedale Microcitemico di Cagliari io e tutti gli altri bambini, anche quelli assistiti nella Clinica Pediatrica del Macciotta, abbiamo cambiato casa.

Finalmente avevamo un reparto tutto per noi ed ogni bambino poteva avere un letto tutto suo, a differenza di quanto spesso accadeva al SS Trinità.

Al Microcitemico ho conosciuto il Professor Antonio Cao e la mia vita è cambiata. Finalmente si curava la talassemia in maniera specifica.

Come vivevi da bambino la tua FORTE esperienza?

Sono sempre stato una persona molto gioiosa e perfino estroversa, questo mi ha aiutato a vivere meglio la malattia e a sopportarne la pesantezza.

Sono cresciuto più con i miei nonni che con i miei genitori, perciò ho sviluppato una forte autonomia fin da piccolo.

Il fatto di dover badare a me stesso, di capire come uscire dai problemi, mi ha aiutato anche nel percorso della malattia.

Non avevo tempo di deprimermi, dovevo pensare a come evitare i bulli, cercare di trovare il mio posto fra gli amici, poi più in là nel mondo del lavoro e tutto il resto. Insomma, ho avuto la fortuna di dover affrontare i problemi che hanno tutti.

Gli Infermieri di prima e di adesso? Quale cambiamenti secondo il tuo punto vista nell’arco degli anni?

Sono cresciuto in mezzo a medici e infermieri, con loro ho sempre avuto un atteggiamento di fiducia.

Questo lo si deve al fatto che, da che ho memoria, la maggior parte di loro sono stati nei miei confronti (così come nei confronti di tutti i bambini) oltre che professionali, affettuosi e comprensivi.

Al microcitemico, nel nostro reparto di talassemia, c’era un ambiente fantastico. Perlomeno io la percepivo così.

Dal punto di vista professionale trovi un miglioramento o peggioramento?

Potremmo dire un peggioramento. La situazione è molto complicata e deve tener conto di una serie di questioni.

Spesso non c’è armonia neppure fra gli operatori sanitari e a rimetterci è sempre il paziente.

Stiamo vivendo tempi difficili e la mia personalissima opinione è che quanto ho conosciuto in passato non possa tornare più.

Cosa ci consiglieresti per una adeguata assistenza verso il paziente pediatrico talassemico? E verso il paziente adulto?

Sono due tipologie ovviamente diverse che meritano attenzioni e assistenza altrettanto diverse.

I bambini hanno il diritto di avere un equipe specializzata a trattare con loro, perché spesso sono i meno rispondenti per ovvi motivi.

Noi adulti (io ho 43 anni, ma abbiamo anche pazienti di 60 anni) hanno altre esigenze. C’è anche una questione legata alla manualità, ovvero i primi sono piccoli e si agitano perciò le infermiere (o gli infermieri) devono trovare con loro il modo di farsi riconoscere come persone amiche, in modo da conquistarsi la loro piena fiducia.

Ma anche gli adulti, specie con gli infermieri che conoscono poco, devono entrare in empatia. Fra adulti, teoricamente, è più facile, perché gli operatori sanitari coi pazienti si parlano, si confrontano.

Tuttavia, alcuni pazienti cronici come noi, seppure adulti, qualche volta incontrano difficoltà perché si portano dietro un vissuto di sofferenza.

I problemi maggiori li abbiamo quando usciamo dal nostro reparto per essere assistiti in altre strutture dove manca il rapporto di conoscenza.

Sei stato assistito in un importante Ospedale a New York, quali differenze ci sono, dal tuo punto di vista, tra gli infermieri italiani e americani?

Nella vita mi è capitato di avere a che fare con infermieri e medici (ma anche OSS) in Sardegna, in Lombardia, a Manhattan e a New York. Non ho mai avuto problemi seri in nessuno di questi luoghi.

Al Microcitemico, poi, è come stare in famiglia, si può anche discutere, ma poi si fa pace. L’esperienza americana è iniziata nel 2013 in occasione di una terapia sperimentale che va avanti ancora.

Afferisco al Memorial Sloan Kettering Cancer Center, uno dei più importanti Ospedali del mondo. Sono stato lì per ben cinque volte e ci andrò ancora in futuro.

Una volta, in occasione del trapianto genico, sono stato ricoverato per più di un mese.

Devo dire che le differenze sono tante, com’è normale intuire.

Stiamo parlando di due modelli di Sanità molto diversi: quello Italiano è un modello che nonostante le grosse difficoltà offre assistenza di qualità a tutti, quello americano – per sintetizzare – solo se puoi permettertelo.

Quello che ho notato in America è che c’è un sistema di attenzione diverso. Non necessariamente migliore, ma solo diverso.

Per esempio il servizio alberghiero (inteso come assistenza non medica) era eccellente e non venivo trattato come un paziente, piuttosto come un ospite a cui riservare un trattamento di altissima qualità.

Tutto è diverso, dagli arredi agli spazi a disposizione; gli infermieri (provenienti da paesi diversi del mondo) erano con me sempre sorridenti e disponibili.

Non ho mai avuto la sensazione che avessero fretta di concludere le operazioni, e l’affiatamento con i medici era palpabile.

Sono rimasto piacevolmente sorpreso nonostante la difficoltà di comunicazione dovuta al fatto che io non parlo la loro lingua.

Mi sono informato e ho scoperto che tutti gli operatori sanitari, ma proprio tutti, in certe realtà sono formati in maniera specifica e fanno continui corsi per essere il più possibile in armonia con il paziente.

Alcuni dicono che sia tutto finto o costruito, come quando ci troviamo in un negozio e i commessi ci sorridono sempre.

Può darsi, magari è una semplice strategia, ma devo dire che funziona!

Una volta parlando con una di loro (di antiche origini italiane) mi ha detto che quello dell’infermeria è un lavoro complicato e spesso ingrato, e proprio per questo chi lo fa deve avere una grandissima motivazione.

Ha aggiunto che se a lei fosse capitato di perderla avrebbe cambiato mestiere, per la sua serenità e per quella dei pazienti. Mi sembra che non faccia una piega.

Ringrazio di cuore Ivano per la sua disponibilità, per averci regalato il suo tempo per condividere con noi la sua storia e per averci inviato alcune foto riguardanti la sua esperienza.

Le sue parole sono una fonte preziosa di informazioni e si auspica che ogni operatore sanitario riesca a coglierne l’essenza per un miglioramento della qualità…

 

Ilenia Cocco

Giuseppe Papagni

Nato a Bisceglie, nella sesta provincia pugliese, infermiere dal 94, fondatore del gruppo Facebook "infermiere professionista della salute", impegnato nella rappresentanza professionale, la sua passione per l'infermieristica vede la sua massima espressione nella realizzazione del progetto NurseTimes...

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