Il servizio di emergenza territoriale 118: intervista a Roberto Romano

…di Piero Caramello

Roberto Romano, conosciuto durante la mia breve esperienza come Consigliere IPASVI di Firenze, collega preparato ed appassionato. Numerosi sono i suoi interventi su Quotidiano Sanità, soprattutto quando si parla di 118, il suo “habitat” professionale

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Carriera inziata nel 1996, che lo ha visto operare in numerosi diversi setting seppure con un denominatore unico, l’emergenza: Cardiochirurgia, Rianimazione, UTIC, DEA prima dell’approdo all’Emergenza Territoriale.

Un Master di I livello in Anestesia e Rianimazione ed ora, non pago di tutto il sapere acquisito, prossimo al conseguimento di quello in Coordinamento.

L’idea di intervistarlo mi è venuta dopo aver letto il suo ultimo intervento su Quotidiano Sanità, nel momento più caldo delle polemiche seguite alla sospensione dei medici del 118 da parte dell’Ordine dei Medici di Bologna.

Poche domande per dare una visione pià ampia a quella che per tutti sta diventando la “questione infermieristica”.

1) I cambiamenti culturali sono tra quelli più difficili da ottenere, anche se poi nel comune sentire spesso ci si accorge che sono già avvenuti. Il 118 rientra tra questi, forse perchè quando “stai male” non ti interessa chi ti soccorre ma che lo faccia. Questa visione “del non importa chi fa ma se ha le competenze” la trovo pericolosa, al pari dei corsi “per le iniezioni intramuscolari” o le delibere per le badanti, tu che ne pensi?

Sono sicuramente ambiti molto differenti. Per quello che riguarda il servizio territoriale di emergenza non c’è davvero da inventarsi nulla. Basta guardare alle norme, quelle già scritte, in maniera non strumentale all’una o all’altra parte, per cercare di fornire un servizio di qualità a chi soccorriamo.

Voglio essere chiaro: un servizio di emergenza non si fa senza medici. Bisogna però stabilire dove questi devono stare, a mio parere nei DEA ed in poche ma altamente professionalizzate automediche che si attivino sul reale ed acclarato bisogno, e che tipo di professionalità è necessaria per queste figure. Questo non è stato fatto, almeno non in maniera seria ed organica, fino ad ora.
Tutti i servizi di emergenza territoriale hanno come obbiettivo principale quello di stabilizzare il paziente per assicurarne il trasporto in sicurezza in ambiente protetto e dove si possa correttamente effettuare l’attività di diagnosi che è, e rimane, prerogativa del medico.

L’attività di stabilizzazione sul territorio non è però necessariamente atto medico e non richiede sempre la sua professionalità.

Se così non fosse esperienze come quelle emiliane e toscane, dove da anni gli infermieri gestiscono perfettamente ed in autonomia casi anche di notevole criticità, avrebbero portato a danni immensi nella popolazione ed avremmo decine di contenziosi aperti che, al contrario, non ci sono. In realtà molti studi sull’argomento, effettuati in questi anni, hanno dimostrato l’esatto contrario, cioè che l’infermiere è nella maggior parte dei casi, cito gli ottimi Mezzetti e Baldanzi di GIETT nella loro recente lettera a Quotidiano Sanità, il professionista giusto da spendere in questo setting. Quanto dico si evince bene anche dalla nettezza delle prese di posizione in materia di importanti società scientifiche del settore.
Il problema è a mio parere, anche nell’affare badanti e iniezioni intramuscolari, così come nell’emergenza territoriale, la mancanza di vision prospettica. Credo che né i medici né gli infermieri possano più rimanere ancorati all’atto tecnico. Ovvio che spinte in avanti, come quelle che citavi, nell’affidare atti tecnici e assistenziali a non professionisti devono essere attentamente valutate e governate, sempre però nell’ottica di una vision di sistema ampia e mantenendo ferme, ma non statiche, le prerogative professionali.
Il pericolo, in buona sostanza, non sta necessariamente nel cambiamento ma in come questo viene, o non viene, governato.

2) Il sistema 118 possiamo dire che funziona, al netto di problematiche varie, e rientra tra i servizi meglio gestiti ed organizzati che la sanità pubblica offre. Tuttavia ritengo che non ci si possa basare sempre sulle Associazioni di Volontariato, ma esso dovrebbe avere le capacità di agire a prescindere. Ritieni utopistica questa visione?

Non so cosa si intenda con “uno dei servizi meglio gestiti ed organizzati”. Dipende.
Intanto bisogna dirci che non tutta l’Italia è Toscana o Emilia Romagna, tanto per citarne due virtuose. Ci sono troppe varianze nel Paese per poter dare un giudizio netto ed univoco sul servizio. Anche all’interno della stessa regione le differenze sono, a volte, immense.
Si ritorna su quello che dicevo prima: la mancanza di vision di sistema è quello che, a mio parere, non riesce a mettere il servizio su un binario unico.

Credo che a livello centrale, di Ministero, ci si dovrebbe porre seriamente una domanda su quanto sia etico fornire un servizio con livelli di difformità così elevati tra un sistema 118 regionale e l’altro, a volte tra una città e l’altra. In Italia abbiamo persone che hanno il diritto e la possibilità di essere assistite da un infermiere (in autonomia o in equipe), nel momento dell’emergenza, altre che non lo hanno. Questo non è più accettabile.
Credo che sarebbe auspicabile che la FNC Ipasvi, in primis, formasse un osservatorio nazionale che avesse il compito di promuovere ed uniformare l’infermieristica nel sistema di emergenza territoriale fino a portare, ovviamente con la letteratura a supporto, e con un serio e sereno lavoro col Ministero, la presenza dell’infermiere in questo setting ad essere LEA.
Per quello che concerne la presenza del volontariato credo che non sia possibile, per tutta una serie di motivi anche storici, specie in certe regioni d’Italia, farne senza. Anche qui però occorre una nuova vision che ci porti a superare un livello formativo che non sempre è all’altezza dei bisogni e a dirci, finalmente, che il cittadino che chiama un’ambulanza ha diritto a ricevere un soccorso professionale. Come ho già detto prima il livello standard, sotto il quale non scendere, in questo caso non può che essere l’infermiere.
Il soccorritore può essere un collaboratore, validissimo se ben formato, ma non gli si può delegare, come purtroppo si fa in molte realtà, la gestione in prima persona di situazioni di emergenza urgenza che sarebbero temibili e complesse anche per un professionista e che richiedono capacità tecnico professionali che non si possono improvvisare. Su questo, anche in Regione Toscana, dovremmo rivedere diverse posizioni.

3) Non voglio parlare dell’Ordine dei Medici di Bologna, condivido con Cavicchi che quello sia stato una provocazione tutta interna, ma sullo sfondo possiamo cogliere una relazione medico-infermiere o infermiere-medico molto più avanti di quanto poi nel dibattito “politico” si colga. Forse chi si occupa di politica professionale dovrebbe esaltare questo aspetto invece che continuare a soffiare sul fuoco. Che ne pensi?

Sono assolutamente d’accordo. Il quotidiano è, per fortuna, molto più avanti di quello che traspare dal dibattito di questi giorni. Ricorderai, forse, che in almeno una mia lettera a Quotidiano Sanità ho proprio affermato che nel lavoro di tutti i giorni le diatribe sulle competenze sono quasi sempre ampiamente superate. Quello cui assistiamo in questo periodo è da un lato un evidente scontro tra diverse componenti mediche, dall’altro una necessità di riaffermazione di un ruolo, quello di leadership medica, che peraltro non mi pare essere mai stato messo in discussione. Come qualche illustre commentatore ha affermato in questi giorni qui si palesa la vetustà di certe posizioni che mancano, come dicevo, di una vision che faccia crescere e riposizioni le professioni. Gli infermieri da questo punto di vista, anche se a volte in maniera disordinata, si stanno muovendo. Vedo, purtroppo, sempre più statico il monolite medico che, nelle posizioni di alcuni suoi esponenti, appare non essere approdato ancora nel nuovo secolo. Non mi pare comunque che da parte degli infermieri vi sia una indisponibilità al confronto.

4) Nel mio ultimo pezzo (VEDI), scrivo che la politica per essere efficace deve essere partigiana, tu invece la identifichi nella capacità di “far mettere allo stesso tavolo” le professioni sanitarie. Non siamo molto distanti secondo me, ma la domanda rimane: come? non si rischia entrambi di essere più realisti del re?

No, non siamo distanti. Si può sedere allo stesso tavolo ed essere partigiani. Io, anche per il ruolo elettivo che rivesto, sono estremamente di parte, dalla parte degli infermieri, ma ritengo fondamentale il dialogo, senza il quale non esiste politica. Le posizioni intransigenti a prescindere non sono mai, a mio modo di vedere, vincenti. Le professioni devono dialogare riportando al centro il cittadino che è, attenzione a non scordarlo, il fruitore dei servizi che andiamo ad erogare.
Dobbiamo anche cercare di superare le divisioni interne alla professione, che non ci fanno bene. Spinte di delegittimazione delle rappresentanze professionali (IPASVI) non sono utili a nessuno. Altro è, invece, pretendere che queste rappresentanze funzionino e lo facciano al meglio. Questo, oltre che un diritto, è un dovere di ogni professionista.
Lo stesso vale per il sindacato. Quando riusciremo ad avere una sinergia di intenti, almeno sui punti chiave, da parte delle varie sigle? E’ utopia parlare di una intersindacale infermieristica?
Credo fortemente che la chiave stia sempre nel confronto, con posizioni nette e ben definite che siano però anche movibili in funzione del bene della collettività professionale e dei nostri pazienti.

5) Entrando nel merito della Regione dove lavori e operi, la Toscana, un giudizio sulla riforma sanitaria, quali prospettive per gli Infermieri?

Purtroppo in materia devo notare la grande confusione che regna negli assetti e nelle linee decisionali. Ricorderai che si era partiti parlando di una riforma quasi epocale. La realtà è, mi pare, che al momento tutto risulta ancora confuso e l’impressione è che si sia detto di voler cambiare tutto per poi lasciare le cose sostanzialmente invariate, almeno nella sostanza, se non per andare in situazioni di vero e proprio taglio dei servizi.
Se è vero, come è vero, che gli infermieri hanno conquistato i dipartimenti infermieristici, non si può fare a meno di chiedersi, se le indiscrezioni di queste ore sono fondate, a cosa questi servano con un medico che ne detenga in qualche modo la responsabilità o una sorta di referenza. Personalmente avverserò con tutte le mie forze un simile assetto.
Tutti paiono comprendere che la sfida dei prossimi anni sarà portare l’assistenza nelle case e lasciare gli ospedali alle situazioni acute ma, incredibilmente, non si riesce a far passare una idea ed un progetto di “infermiere di famiglia” che sia realistico e funzionale ai bisogni.

I nostri politici sembrano, al di la delle parole, avere ancora una grossa difficoltà a staccarsi e a prendere le distanze dalla visione medico-centrica che tutti ben conosciamo. Senza infermieri, però, l’assistenza non si può fare e si deve avere finalmente il coraggio di potenziare, anche con importanti investimenti che farebbero risparmiare molto, in prospettiva, la rete infermieristica territoriale.
Come vedi è sempre un problema di vision e di riallocazione delle risorse. Sempre che si abbia la voglia di guardare un po’ più in là…..altrimenti continueremo a chiederci come mai si dimetta un paziente dal pronto soccorso e lo si veda rientrare due o tre volte nella settimana seguente per il medesimo problema o per problematiche collaterali che potrebbero e dovrebbero essere gestite a domicilio.

La risposta, in questo caso, sta nel potenziamento dell’infermieristica territoriale.
Se non si deciderà di aumentare significativamente l’assistenza sul territorio implementando l’infermieristica di comunità/famiglia, situazioni come quella di Pomarance (VEDI) si moltiplicheranno.

Quell’iniziativa va letta, a mio parere, come un grosso campanello di allarme per la professione infermieristica, a causa di una improvvida cessione di competenze tecniche specifiche unilateralmente decisa, ma come un campanello ancora più grande per una regione ed un territorio che non riescono a dare risposte strutturate ai bisogni dei cittadini.

6) Ultima domanda: la crisi occupazionale è drammatica, le possibilità di trovare lavoro ad un anno dalla laurea è sotto il 50%, molti infermieri emigrano all’estero, i concorsi pubblici sono un terno al lotto, senza dimenticare i problemi nel quotidiano. Le tue riflessioni.

Quanto è vissuto tutti i giorni dalle migliaia di colleghi che operano nei servizi deriva in gran parte da quanto accennavo sopra. Esistono problemi legati a concezioni del lavoro che è riduttivo definire tayloriane, con croniche carenze di personale che si tenta di compensare con riorganizzazioni del lavoro che, a volte, se viste come cura, finiscono ad essere peggiori del male. I coordinamenti hanno perso, in molti casi, la funzione di leadership per il gruppo che avevano in passato.

Le dirigenze sono a volte troppo allineate con le linee aziendali, tanto da finire, in alcuni casi, per dimenticare di appartenere ad una comunità professionale che avrebbe bisogno primariamente proprio della loro tutela.
Quanto accade ai ragazzi che escono dal Corso di Laurea, anche se ormai il problema non è più solo loro, è semplicemente vergognoso.
Proprio in questi giorni mi sono trovato a partecipare, a Firenze, alla giornata del neolaureato organizzata da IPASVI Firenze. I racconti di un giovane collega sulla sua esperienza inglese mi hanno fatto riflettere, anche se ti confesso che la riflessione l’avevo già fatta e approfonditamente, su quanto poco si investa sulla nostra professione nel nostro Paese.
Non possiamo permetterci di perdere una generazione di colleghi mandandoli a cercare fortuna oltre Manica perché qui non siamo in grado di dare loro quello per cui li abbiamo illusi. Abbiamo tutti, governo, regioni, rappresentanze professionali e sindacali, una grande responsabilità per quello che sta accadendo.
Come IPASVI Firenze abbiamo preso una posizione forte nei confronti della Regione affinché si ricominciasse ad attingere alle graduatorie aperte in ESTAR (VEDI) e si indicessero nuovi concorsi evitando così il continuo ricorso alle agenzie interinali.

La risposta dell’Assessore alla Sanità mi ha personalmente stupito: si nota che molti colleghi, su chiamata, avrebbero rifiutato. Non so dire se questo sia reale e in che proporzioni ma non posso fare a meno di chiedermi se, chi nota questo fatto, abbia mai provato a trasferirsi in un’altra città, con tutto quello che ciò comporta anche a livello pratico ed economico, dovendo pagare un affitto e con uno stipendio medio di 1400 Euro al mese, cioè ben al di sotto di quelle che sono le medie europee per la nostra professionalità.
Forse abbiamo bisogno di parlare meno di Europa e di cercare di farne maggiormente parte. Gli infermieri in Europa hanno riconoscimenti sociali, professionali ed economici ben diversi. Questo è senz’altro uno dei motivi, anche se non l’unico, per cui molti giovani emigrano. Forse la nostra politica dovrebbe iniziare a credere davvero negli infermieri e ad investire su di noi qualcosa di più delle sole, belle, parole.

Mi piace pensare, nel rispetto di ogni posizione rispetto ai temi che ho trattato con Roberto, che questi sono gli Infermieri ed amaramente prendo atto che ci stiamo perdendo un bel bagaglio intellettuale e culturale.

Redazione Nurse Times

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