”I segni sul volto prima o poi spariranno, ma quegli sguardi ce li porteremo dentro per sempre.”

Di questa esperienza non dimenticherò mai il primo turno. Sono entrata nel modulo con le mani che mi tremavano, non riuscivo a respirare sotto tutti quegli strati di roba; avevo caldo, la visiera era già completamente appannata e nella testa girava un solo pensiero: “Ma come faccio a resistere un mese qui?” Si, perché inizialmente ci dissero che sarebbe stata una situazione momentanea, che dopo un mese ci avrebbero rimandato nei reparti di appartenenza. Eppure dopo 30 giorni siamo ancora qui, in trincea, rassegnati al fatto che “qui” ci rimarremo ad oltranza, finché anche l’ultimo paziente non sarà guarito.

Di quella prima notte non scorderò mai quell’uomo sulla cinquantina che stringendomi la mano mi disse: “Ti prego fai qualcosa!”, ma non potevamo fare più nulla di quello che avevamo già fatto per lui. Qualche ora dopo fu intubato e fui io a rispondere alla moglie che chiamó alle 6 di mattina, in lacrime; perché non aveva più sentito il marito per telefono. Pensate al senso di impotenza che si può provare nello stare a casa ad aspettare una chiamata, all’agonia in attesa di quel messaggio che dice “tutto ok” che non arriva mai; alla paura che l’ultimo abbraccio che hai dato all’amore della tua vita non sia stato così forte come avresti voluto e il pensiero di non poterlo fare mai più. No, non possiamo minimamente immaginarlo. Solo chi ha vissuto e sta vivendo questa situazione con i propri cari può saperlo.

Alla fine, non so se sia stato un segno del destino o pura casualità, ma io c’ero anche quando quel paziente fu risvegliato; c’ero quando fu riportato da noi in sub-intensiva e fui proprio io la persona a cui chiese di prendergli il cellulare che era stato spento da parecchi giorni. Ricorderò sempre quel “Oh sono tornato” farfugliato al microfono tra il sorriso e le lacrime. Ora è a casa. La sua è solo una delle tante storie che ci passano davanti ogni giorno ma purtroppo non tutte hanno lo stesso lieto fine ed è proprio la paura che leggiamo sui loro occhi la parte più dura di questo lavoro; perché i segni sul volto prima o poi spariranno ma credo che quegli sguardi ce li porteremo dentro per sempre.

Martina, infermiera del Covid Hospital di Civitanova Marche

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