I cittadini del Sud pagano più tasse per far curare i pazienti nelle regioni del Nord Italia

Un federalismo regionale che andrebbe rivisto e reso più equo, una sanità che tradisce l'art. 32 della nostra amata Costituzione.

E’ un’Italia a due velocità: si vive più a lungo a seconda del luogo di residenza o del livello d’istruzione

Con differenze tra regioni del sud e nord: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi.

A farne le spese sono le regioni del Sud dove le persone hanno una speranza di vita più bassa. Se a Napoli l’aspettativa di vita è 80,6 anni, a Rimini e a Firenze si arriva a 84. In generale la prospettiva di vita in Campania o Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia.

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Disuguaglianze acuite anche dalle difficoltà di accesso ai servizi sanitari che penalizzano la popolazione di livello sociale più basso con un impatto significativo sulla prevenzione, sulla capacità di diagnosticare rapidamente le patologie.

Dallo studio emerge che anche se il Servizio sanitario nazionale assicuri nell’insieme la longevità degli italiani, non c’è ancora equità sociale e territoriale. L’allarme arriva dai dati dell’Osservatorio nazionale della salute nelle regioni italiane, un progetto dell’Università Cattolica, e ideato dal professor Walter Ricciardi.

Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro.

Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c’è un divario di assistenza sanitaria.

Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l’anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi.

Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l’ospedale di un’altra regione per curarsi.

Dall’altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali.

Quell’immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d’eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure.

C’è anche da dire che la sanità calabrese è commissariata dal 2010.

Francesco Masotti, dirigente sanitario dell’azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese: “Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro”.

Tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti agli anni scorsi, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva.

Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali.

Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l’otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine.

Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria.

E visto che l’Italia da anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l’Irpef e l’Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno.

Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati.

Per rimettersi in sesto, s’è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l’assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento.

Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza.

Il piano di risanamento dei conti della sanità è ancora in atto in alcune Regioni del sud Italia.

Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo; il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all’osso. Con il disavanzo che viene pagato con un aumento delle tasse, dell’Irap e dell’Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l’1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l’1,73, ma poi va in Lombardia a curarsi.

Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori – medici e infermieri mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari. Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio.

Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all’inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell’assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove.

Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove. Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi.

Un federalismo regionale che andrebbe rivisto e reso più equo, una sanità che tradisce l’art. 32 della nostra amata Costituzione.

 

Redazione NurseTimes

 

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