Con gli occhi di una giovane Infermiera…

A volte ci perdiamo nei tecnicismi, altre, persi come siamo da mille problemi (di personale, contrattuali e chi più ne ha più ne metta), finiamo con fare poca attenzione a chi assistiamo, pur facendolo in maniera tecnicamente ineccepibile

Si sa, noi infermieri siamo bravissimi a proteggerci, o almeno a pensare di farlo, dalle brutture che sono parte del nostro lavoro.

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Molti di noi sviluppano una “scorza”, dura, a volte impenetrabile, che è funzionale a proteggerci da quanto siamo, per professione, costretti a toccare. A volte questa corazza finisce col funzionare troppo. Alcuni a volte, purtroppo, diventano anche cinici o meri esecutori di compiti.

Girando su Facebook ho notato il post, che pubblico sotto, scritto sul profilo di una giovane Collega.

La “C” non è casuale. Perla legge con i suoi occhi, entusiasti per quello che fa, una giornata di tirocinio di Master.

La sua riflessione la fa passare dalla lettura di cartelle cliniche, atto che tutti compiamo giornalmente, alle storie che stanno dietro, quelle che non si vedono o che si sceglie di non vedere durante il nostro turno giornaliero.

Qui accade che Perla trova, forse per caso, ma più probabilmente grazie alla sua grande sensibilità, ciò che personalmente ritengo essere l’essenza dell’essere Infermieri: La possibilità di entrare in empatia, vera, con il paziente traendo anche un vantaggio, in termini di arricchimento interiore, dall’incontro con esso.

Abbiamo un grande privilegio, anche se a volte lo scordiamo.

Grazie Perla, anch’io sono felice che questa mattina tu sia riuscita ad alzarti dal letto. Mi hai dato un motivo in più per sperare nella Professione che esercito, da molto più tempo di te, e che amo ancora come il primo giorno. Non cambiare.

Roberto Romano

Da Facebook:

Chi mi conosce bene sa che dormire almeno sei/sette ore a notte per me è fondamentale per riuscire a rimanere sveglia e orientata il resto del giorno dopo. Ci sono mattine in cui proprio faccio fatica ad alzarmi, e altri momenti in cui la mia pressione, solitamente bassa, si fa inspiegabilmente bassissima e neanche riesco più a muovere le braccia o a tenere gli occhi aperti.

Capita non rare volte che mia mamma, fiutando un collasso, guardandomi di sottecchi mi chieda “ti senti bene?”, e che io le risponda “non riesco a rimanere sveglia, mi sento troppo debole”.
Due sere fa, a Bologna, ho dormito insieme ad altri 19 pazzi fuori dai cancelli di un palazzetto dove ieri sera si è poi tenuto il concerto di uno dei miei gruppi preferiti. In tenda e sacco a pelo, dopo una giornata di lezioni e tirocinio qua a Pisa. Ieri mattina ci siamo svegliati alle prime luci dell’alba, dopo sei ore di sonno, passandone poi altre tredici in fila ad aspettare che i cancelli aprissero, e altre quattro a cantare e ballare. Alle due di stanotte ero di nuovo nel mio letto, a casa, a Pisa, con cinque sveglie puntate intorno alle sette per il tirocinio di stamattina.

Stamani è stata una di quelle mattine.
Una di quelle difficilissime mattine in cui fino all’ultimo valuti e rivaluti se sia il caso di alzarsi o meno, che per poter rimanere a dormire o riposarti ancora un po’ pagheresti col sangue, se potessi.


Vado o non vado, magari chiamo e dico che oggi non riesco ad andare, una mattina la posso anche perdere, altri cinque minuti e decido, dai…
Poi di minuti ne passano dieci, il senso di responsabilità alla fine la spunta, mi trascino in bagno per prepararmi ed esco.
Arrivo al coordinamento trapianti di rene-pancreas, dove non ho mai messo piede prima, e vengo accolta da Rosalba, una collega che pazientemente mi spiega un po’ l’organizzazione del centro e il metodo di lavoro. E’ gentile e disponibile, nonostante gli uffici siano in pieno trasloco dal piano superiore, il telefono squilli costantemente e i pazienti si presentino alla porta a intervalli regolari di dieci minuti per avere informazioni sugli appuntamenti, le visite, o semplicemente per una parola di conforto e un sorriso di rassicurazione.
Mi metto seduta e osservo con attenzione.
Nel frattempo arriva Perla, un’altra infermiera del coordinamento trapianti. Questo, in seguito, creerà esilaranti momenti, durante i quali persone varie, nel corso della mattinata, ci chiameranno ripetutamente per nome e noi finiremo per girarci e rispondere entrambe, puntualmente, all’unisono.

Leggendo le cartelle e ascoltando le voci, mi imbatto in alcune storie simili tra loro.
Pazienti che necessitano di un rene, che viene loro donato dal coniuge, moglie o marito. dal compagno o dalla compagna – è proprio il caso di dirlo – di vita.

Li ascolto e mi rendo conto di quanto tutto questo sia un qualcosa che va oltre, in un mondo in cui ormai nessuno ti regala niente, i sentimenti forti svaniscono facilmente, nulla è certo, niente è duraturo.
E’ un qualcosa che va oltre: tu non solo mi ami – che è già un impegno emotivo fortissimo – ma mi ami a tal punto da privarti di una parte del tuo corpo, della tua integrità, della tua identità, per sempre.

Lo fai per darla a me, che ne ho fortemente bisogno, che magari mi conosci solo da qualche anno, che non condivido con te alcun legame di sangue, ma “solo” un sentimento d’amore, qui e ora, e domani chissà.
Non solo mi prometti di starmi vicino in salute e in malattia, ma fai del tuo meglio per guarirmi, accettando di andare incontro tu stesso a dei sacrifici enormi.

Il meglio che puoi fare è donarti anima e corpo, toglierti qualcosa da dentro per darlo a me, proprio a me.
Qui e ora…e domani chissà.
E’ un intimo, personalissimo, atto di fede.
Condividere un organo, seppur con qualcuno al quale vuoi molto bene, non è così immediato come condividere la merenda.
E’ un qualcosa che va oltre: io ne ho due ma me ne faccio bastare uno, ti regalo l’altro, così possiamo stare bene entrambi.
Così possiamo stare bene entrambi, insieme.
Sono felice di essere riuscita ad alzarmi dal letto, stamani.

Perla Azzurra Buonaccorsi

Redazione Nurse Times

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