Gli infermieri e le specializzazioni…un tempo riconosciute. Oggi?

In queste ore è stato pubblicato in Rete un interessante contributo che fa il punto, dando voce a vari professionisti coinvolti nelle questioni della categoria, sulla situazione nazionale degli infermieri, particolarmente osservata oggi anche da tanti media di norma concentrati su altre faccende nazionali, grazie (si fa per dire…) alla questione Covid19.

Ecco il link

Nell’articolo si parla anche dell’infermiere di famiglia e comunità e, più in generale, si tocca l’argomento del riconoscimento delle specializzazioni degli infermieri.

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Specializzazioni scomparse molti anni fa che, dopo un lungo oblio, vennero ‘’rianimate’’ dal DM 739 del 1994, proprio quello che ancora oggi fotografa il moderno infermiere italiano come il ‘’responsabile dell’assistenza generale infermieristica’’.

Ma perché ‘’rianimate’’? Perché le specializzazioni erano state ‘’azzerate’’ , stracciate via all’inizio degli Anni Ottanta.

In quel tempo, travolte da una insana passione demolitrice, le organizzazioni sindacali avevano sollecitato un piano di ‘’sanatoria’’, recepito dal Parlamento con la Legge n° 243/1980, ovvero la ‘’…straordinaria riqualificazione professionale degli infermieri generici e degli infermieri psichiatrici’’; norma che non solo andava a produrre un appiattimento (che sul piano retributivo perdura, come concetto, ancor oggi) fra le varie figure che all’epoca si occupavano dei pazienti (infermieri professionali e infermieri generici, i primi con una formazione lunga il triplo dei secondi); ma giunse ad abrogare i ‘’corsi di specializzazione’’ che andavano a effettuarsi nei principali ospedali, e che riguardavano in massima parte alcuni settori, quelli tecnicamente più complessi.

In particolare, all’epoca era possibile frequentare (e lo era stato per l’intero decennio dei Settanta) un corso per diventare infermiere specializzato in anestesia e rianimazione; uno per diventare strumentista di sala operatoria; ed uno per diventare infermiere specializzato in emodialisi.

In alcune realtà si produssero anche altri corsi, tutti della durata di un anno scolastico; ma questi tre erano di gran lunga i più gettonati e vedevano quasi sempre il primario del tempo di quei settori come il ‘’responsabile’’ del corso stesso.

Se è vero che l’autonomia dell’infermiere professionale del tempo non era sostenuta dalle norme che, appunto, sarebbero arrivate solo negli Anni Novanta, allora la professionalità di questa figura era decisamente riconosciuta e chi, fra questi, andava a ottenere un diploma di specializzazione si sottoponeva ad un notevole sacrificio di tempo (lezioni teoriche e pratiche non avvenivano con modalità a distanza, ma nelle scuole e nelle degenze convenzionate, solo nei grandi ospedali e in poche città d’Italia) con l’obiettivo, concreto, di ottenere poi un riconoscimento operativo: economico incluso.

Questo riconoscimento esisteva per contratto! Intanto, che questo infermiere era vivo e reale nei palinsesti organizzativi ce lo conferma il famoso ‘’mansionario’’, o DPR 225 del 1974: l’intero titolo III, che si chiama ‘’Mansioni dell’infermiere professionale specializzato’’, è dedicato a questi (rari) colleghi del tempo e qui è interessante riprodurre l’incipit del testo descrittivo:   L’infermiere professionale specializzato in anestesia o rianimazione o in terapia intensiva, oltre allemansioni indicate per gli infermieri professionali, ha le seguenti attribuzioni assistenziali dirette oindirette dell’infermo, nell’ambito dell’ospedale: assistenza al medico specialista nelle varie attività di reparto (visite pre-operatorie, consulenze)…’’

E’ molto interessante notare come il Decreto (il ‘’mansionario’’) attribuisce come prima mansione a questo infermiere, che si presume più abile in un determinato settore, quella di assistere il medico specialista!

Il mansionario, come possiamo vedere, cita in pratica il solo specializzato in anestesia e rianimazione ma in realtà questo ruolo, come detto, veniva ricoperto in altri ambiti e chiaramente previsto dall’allora contratto nazionale di lavoro del 1974, che piazzava questa figura un livello retributivo al di sopra dell’infermiere professionale.

E qui arriverei al concetto di partenza: una opportunità che oggi la professione chiede, legittimamente, e che l’ultimo contratto ‘’introduce’’ perlomeno sulla carta (senza un euro, rinviando agli accordi decentrati la possibilità di riconoscere qualcosa), era già presente 46 anni fa, negli accordi nazionali (al tempo, il testo contrattuale era l’ A.n.u.l. , ovvero Accordo Nazionale Unico di Lavoro del personale ospedaliero)!

E’ incredibile notare come l’infermiere generico (terzo livello retributivo) venne, dopo un corso di riqualificazione ‘’con sconti’’, elevato al sesto livello, dove si trovava l’infermiere professionale, mentre lo specializzato che era collocato al settimo livello (insieme al caposala e all’ostetrica) semplicemente venne ‘’eliminato’’ (già il contratto nazionale del 1979 lo definiva ‘’ad esaurimento’’).

Ultima nota storica utile, a inizio Anni Ottanta i ‘professionali’’ erano circa il 15% dell’intera forza lavoro negli ospedali; il sindacato volle, evidentemente, ascoltare le istanze del restante 85% e, se si può comprendere la richiesta di migliorare le condizioni retributive di chi, nei fatti, sosteneva la maggior parte del lavoro di allora, diventa incomprensibile sia la assegnazione di percorsi straordinari per attribuire un titolo ‘’sul campo’’, e ancor di più la sparizione delle specializzazioni.

Insomma: oggi gli infermieri a giusta ragione chiedono il riconoscimento del loro sforzo formativo post base, ed il riconoscimento delle competenze acquisite sul campo; un riconoscimento che deve andare oltre la pacca sulle spalle e gli applausi del momento e che, banalmente, era già presente quasi mezzo secolo fa.

La operazione di appiattimento e di azzeramento di ogni differenza non solo retributiva, ma anche nelle stesse qualifiche, eliminando gli esperti del settore, ha contribuito a produrre nel tempo la crisi delle identità e la difficoltà a recuperare differenze che potevano aiutare a mantenere motivazione ed entusiasmi; un concetto negativo – quello dell’appiattimento- che non è scomparso e che anzi, a parere dello scrivente, è lo stesso che ha portato, negli ultimi rinnovi contrattuali, a non rivalutare le indennità notturne e festive, rendendo di fatto il disagio della turnazione ben poco riconosciuto economicamente.

Si può affermare che mentre gli infermieri italiani rivendicano quelle opportunità che migliorerebbero certamente le loro condizioni d’impiego, e quindi la qualità delle prestazioni, si è quasi perduta perfino la memoria di quando questi riconoscimenti esistevano: inevitabile dedurre che 50 anni fa vi era una maggiore attenzione alla professionalità.

Resta, benché inutile, il conforto che più d’uno si domanda ancor oggi il ‘’perché ‘’ di certe manovre; ecco un brano dal web, in uno spazio a cura della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, dunque un testimone ben più neutrale di me: ‘’Gli anni Ottanta ereditano il lungo, acceso e controverso dibattito politico, sindacale e professionale sul concetto di “infermiere unico e polivalente”.

Il confronto poggia sul principio, dimostratosi poi non così vero, che avere nei servizi tutti ‘’infermieri professionali’’ avrebbe automaticamente determinato un aumento della qualità dell’assistenza’’.

Non sarebbe male se qualcuno, ogni tanto, in questo Paese facesse tesoro del passato: chi non lo studia con attenzione, e non ne trae lezione, è destinato a ripetere gli stessi errori, o a mantenere quelli in atto.

Francesco Falli

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