Evolvere significa perdere per acquistare

Il polverone sollevato dal presunto corso sulle “iniezioni intramuscolari” ha dimostrato, laddove ve n’è fosse la necessità, come l’Infermiere sia ancorato in maniera profonda ad una logica prestazionistica per non dire mansionaria. Purtroppo il retaggio culturale per cui un “atto” è mio e non lo concedo, anzi ne realizzo un pretesto di carattere giudiziale ovvero l’abuso di professione, è la dimostrazione plastica di come non sia in atto alcuna evoluzione.

Quando ero bambino le iniezioni di antibiotico, prescritte dall’allora medico condotto, mi sono sempre state praticare da mia nonna, con buona pace dell’abuso di professione che millantiamo. Suppongo che tale pratica fosse, ed è, di uso comune e non ricordo statistiche che dimostrino un aumento della mortalità legate all’atto in sé, a dire il vero non ricordo nemmeno statistiche di eventi avversi, che pure ci saranno stati. Questo non significa che chiunque può “bucare” un gluteo quando c’è l’occasione. Dunque di cosa stiamo parlando?

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In un sistema professionistico mi pare che la logica del radicamento culturale sull’atto tecnico impedisce di fatto la nostra famosa evoluzione, anzi, rischia di produrre un’involuzione tale da dare ragione a chi ci vorrebbe ancora legati ad un mansionario.

Anche la giurisprudenza non è concorde con la nostra visione “assolutistica”: ricordate il caso della direttrice di un istituto per anziani assolta dopo aver subito una prima condanna di esercizio abusivo della professione infermieristica? Qualora la memoria difettasse momentaneamente vi riporto l’estratto della sentenza della Cassazione: “Praticare iniezioni intramuscolari, insulinoterapia e medicazioni, se effettuato sporadicamente e seguendo indicazioni mediche, non sono atti riservati agli infermieri. I prelievi venosi invece lo sarebbero” (Cassazione n. 14603/2010).

Mi pare chiaro che urlare allo scandalo sarebbe lecito, ma è davvero così?

Io credo invece che abbiamo davvero bisogno di evolvere, andando oltre i meri atti tecnici, pur importanti ma che rischiano di ingabbiarci come in effetti stanno facendo.

Nella diatriba medico-infermiere quello che ci viene contestato continuamente è la presunta volontà a sconfinare nella loro professione ossia assoggettarci qualche loro atto. In verità ciò che non vogliono perdere è la centralità del processo di cui sono responsabili. La responsabilità medica del processo di diagnosi e cura è la centralità del problema, una responsabilità che non dovrebbe mai essere sottoposta ad aggressione da parte della nostra categoria. Come il medico, anche l’infermiere è, dovrebbe essere, responsabile di un processo: quello assistenziale.

Nessun medico sente la necessità di interferire nel processo assistenziale, non se ne ravviserebbe la motivazione e nessun infermiere ambisce a gestire il processo diagnostico-terapeutico eppure entrambe le categorie sono in grado di fare un’iniezione intramuscolare.

La differenza sostanziale è che il medico non si pone il problema di chi mette in opera praticamente la sua prescrizione, ricordiamoci che non tutti i medici operano in ambiente sanitario, dunque perché l’infermiere si dovrebbe porre questa preoccupazione nel processo assistenziale?

Non metto in dubbio che come professionisti abbiamo acquisito anche una capacità manuale tale da poter effettuare determinate manovre ma la domanda rimane: quanto incide nel processo assistenziale l’atto tecnico per gli infermieri? La sua incisività da cosa scaturisce? Perché la messa in dubbio dell’esclusività dell’atto tecnico è capace di mettere in discussione la professione stessa?

Queste domande hanno in parte una risposta, sia di carattere formale che sostanziale, al netto che la “forma è sempre sostanza”.

Ritengo però significative le preoccupazioni formali, quelle che assoggettano all’atto tecnico una valenza di riconoscibilità del professionista nell’ambiente in cui opera “io faccio dunque sono”. Potremo definirla una questione di sensi: l’atto tecnico apre al senso del tatto, rende reale le mie conoscenze e permette ad esse di esprimersi, diverso quando si parla di “processo”. Esso non lo posso toccare, non lo posso manipolare ed essendo visibile solo a me stesso, non lo posso di fatto “esibire” e con l’esibizione identificarmi in esso ed identificare la professione.

Il significato di “evoluzione infermieristica” dovrebbe contenere la capacità di saper lasciare andare quei formalismi che impediscono all’Infermiere di essere dove dovrebbe stare, ossia nel processo di valutazione dei bisogni e nella stesura programmatica per la loro soddisfazione. Non è forse vero che una delle lamentele, a proposito dell’impossibilità a elaborare i processi assistenziali, c’è proprio la mancanza di tempo? Perché il tempo viene spesso impiegato in quegli atti tecnici che riteniamo sostanziali per identificarci.

La scienza dell’evoluzione ci insegna che perché una specie evolva bisogna che essa metta in conto di perdere qualcosa, lasci il superfluo. La specie degli Infermieri devono decidere cosa vogliono perdere, perché l’unico modo per evolvere professionalmente è fare spazio a nuovi “saperi”.

A cosa siamo disposti a rinunciare per dare a questa professione quella valenza “sociale” e “culturale” che tutti, a parole, auspicano?

Potremmo cominciare dalle iniezioni intramuscolari? Secondo me si…

 Piero Caramello

Redazione Nurse Times

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