Ma cosa si prova esattamente a stare dall’altra parte, quando di fronte a noi non abbiamo un paziente ma un nostro caro?
Siamo abituati ad aver a che fare con la malattia, ma quando si tratta di una persona vicina a noi, un po’ meno, o magari non lo siamo affatto.
Ogni giorno guardiamo negli occhi un paziente, lo invitiamo a non mollare, ad avere forza ed andare avanti nonostante il dolore, una brutta diagnosi, una prosecuzione della degenza. Ogni giorno tocchiamo la sofferenza con le nostre mani, e questo ci fa riflettere molto, ci fa riflettere sulla futilità dei nostri problemi, e sull’apprezzare di più la vita.
Ma quando succede a noi, quando è un nostro caro ad ammalarsi, tutto è diverso. Ci sembra quasi di aver a che fare con un paziente per la prima volta. Non si è affatto preparati.
Si ha paura della morte, timore del dolore, il pensiero ci pervade tutto il giorno dal risveglio la mattina alla sera quando si va a dormire, si prova rabbia, e spesso ci si sente semplicemente, inutili.
Siamo infermieri, ma non siamo supereroi, e anche davanti ad una diagnosi con prognosi infausta ci illudiamo che il nostro caso possa essere diverso dagli altri, contro qualsiasi dimostrazione scientifica.
Ci illudiamo che ci possa essere una luce nel buio, e si cerca una speranza anche quando sappiamo benissimo che non c’è.
Spesso ci si comporta come se ci si dimenticasse del nostro ruolo, e siamo semplicemente figli, fratelli, coniugi, genitori, cugini, nipoti, amici, come se il nostro lavoro non avesse a che vedere con questa condizione ma con la consapevolezza di essere per il nostro caro un punto di riferimento.
Rosanna Lacerenza
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