Ogni anno 250 pazienti sono ricoverati per trauma cranico in Italia con una mortalità di circa 17 casi ogni 100.000 abitanti [1,2] e circa 60.000 persone sono colpite da arresto cardiaco con un’incidenza nei Paesi industrializzati compresa tra i 36 e i 128 casi ogni 100.000 abitanti [3].
Queste drammatiche stime presentano degli avvenimenti che hanno tutti i caratteri di un’emergenza da gestire con efficace formazione e in tempi brevissimi: l’interruzione dell’attività elettrica del cuore e gli eventi traumatici influenzano l’organismo stesso per la mancata ossigenazione cellulare che comporta interruzione del flusso ematico cerebrale con conseguenti danni ischemici agli organi e lesioni neurologiche; diventa, quindi, fondamentale ogni minuto che trascorre in quanto il danno neurologico inizia dopo 4-5 minuti e diventa irreversibile dopo 10 minuti.
Ciò ha inevitabilmente determinato il ricorso a tecniche innovative che riuscissero a potenziare la sopravvivenza cellulare e a preservare l’outcome neurologico di un soggetto colpito [4]: tra queste si annovera l’ipotermia terapeutica che, attraverso le evidenze scientifiche, si sta stabilendo negli ultimi tempi in qualità di trattamento non rischioso e favorevole in diversi settori, soprattutto dopo gli eventi acuti [4,5].
L’ipotermia terapeutica (o indotta) si definisce come una metodica di trattamento finalizzata a prevenire e a ridurre i danni neurologici mediante l’intenzionale riduzione della temperatura corporea fino al raggiungimento di 32-34°C e a cui si ricorre quando tutte le altre misure medico-chirurgiche non abbiano portato a risultati soddisfacenti [6].
Con la diffusione nel 2020 del Covid-19, l’intera salute mondiale è gravemente compromessa [7] e negli ultimi mesi la letteratura ha mostrato interesse verso l’ipotermia terapeutica nei riguardi del paziente affetto da ARDS grave da Covid-19.
L’obiettivo di questo articolo è rivolto a far riflettere sugli effetti dell’ipotermia terapeutica nel paziente affetto da Covid-19 e su come questa possa contribuire a migliorare l’emergenza respiratoria acuta.
Molto dibattuta e analizzata durante la pandemia da Covid-19 è stata la gestione nelle unità di terapia intensiva dei pazienti critici affetti da Covid-19 con sindrome di emergenza respiratoria acuta (ARDS), ovvero la sindrome da distress respiratorio acuto che consiste in una patologia essudativa flogistica polmonare e caratterizzata da edema polmonare, infiltrati bilaterali ingravescenti, riduzione della compliance polmonare e ipossiemia refrattaria all’ossigenoterapia [8,9,10].
Nonostante l’utilizzo di ventilazione artificiale con alte concentrazioni di ossigeno, l’ECMO, l’uso di farmaci miorilassanti e la pronazione [10,11,12] in alcuni casi ci si trova di fronte ad una refrattarietà alle terapie che ha mosso nuove ricerche atte ad applicare la metodica dell’ipotermia terapeutica e a verificarne la sicurezza verso questa tipologia di pazienti.
Alcuni report di seguito indicati hanno visto l’applicazione dell’ipotermia nella gestione dell’ARDS da Covid-19 e i risultati ottenuti incoraggiano la sua applicazione per la sua sicurezza in quanto procedura terapeutica: il primo RCT, alla fine del 2020, ha analizzato le conoscenze sul metabolismo del paziente con ARDS durante l’ipotermia terapeutica e ha valutato l’influenza sulla riduzione del consumo di ossigeno e sulla produzione di anidride carbonica [13]; il secondo RCT, terminato a novembre 2020, ha esaminato l’impatto dell’ipotermia tra i 34°C e i 35°C per 48 ore sulla durata della ventilazione meccanica a cui venivano sottoposti i pazienti con ARDS da Covid-19 [14].
Infine, un ulteriore studio è in fase di inizio in questi mesi per concludersi alla fine del 2023 con lo scopo di ampliare i dati ottenuti nel secondo RCT con una numerosità campionaria caratterizzata non solo da soggetti affetti da ARDS da Covid-19 ma anche da ARDS determinata da altre cause [15].
Si auspica che l’interesse e la diffusione di questi studi determinati dalla pandemia Covid-19 possano essere approfonditi sull’impatto terapeutico dell’ipotermia nel paziente critico da ARDS, ormai già consolidata e implementata quale procedura efficace, sicura e con sempre maggiori benefici rispetto alle complicanze, tra le quali si annoverano la riduzione o l’inibizione dell’apoptosi, danni ai vasi sanguigni, l’attività di sequestro, il rilascio di glicina, l’acidosi intra ed extra-cellulare e l’infiammazione [6].
Autore: Anna Arnone
BIBLIOGRAFIA
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