Tre giorni di assenza ingiustificata: a compierli, però, non è un semplice studente, bensì un lavoratore. Violazione significativa, senza dubbio, ma non tale da legittimare il licenziamento.
Dipendente da risarcire, quindi, ma su questo fronte è necessario tener conto della rioccupazione ottenuta dall’uomo – come da lui stesso dichiarato –, anche se l’azienda non ha assolutamente battuto su questo tasto. (Cassazione, sentenza n. 17370 del 14 luglio 2013).
Univoca la linea seguita dai giudici nei primi due gradi di giudizio: da accogliere «l’impugnativa del licenziamento» proposta dal dipendente – «assunto con contratto di apprendistato» , che era stato cacciato dall’azienda «per assenza ingiustificata di tre giorni». Alla base di questa decisione la semplice considerazione che «la sanzione» messa in opera dall’impresa «non poteva ritenersi proporzionata alla mancanza contestata». Anche tenendo presente che, a livello di contratto collettivo, era stata prevista addirittura «una sanzione conservativa in ordine alla più grave ipotesi del lavoratore che si assenta simulando la malattia o, con sotterfugi, si sottragga agli obblighi di lavoro».
E questa ottica viene condivisa anche dai giudici della Cassazione, i quali respingono le rimostranze proposte dall’azienda. Riflettori puntati, a questo proposito, sul nodo della «clausola contrattuale» ritenuta «più favorevole»
per il lavoratore: ebbene, ricordano i giudici, «la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento, contenuta in un contratto collettivo, non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verifi care, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore».
Resta, però, un fronte ancora aperto. È quello della valutazione del danno provocato al lavoratore dal licenziamento, che, come detto, in questo caso, è ritenuto assolutamente illegittimo. Ebbene, su questo punto, le osservazioni proposte dall’azienda vengono ritenute fondate. Per la semplice ragione che i giudici di secondo grado hanno ignorato «la prova dell’aliunde perceptum» somme percepite svolgendo altra attività lavorativa come emerso dalle «dichiarazioni confessorie rese» dal dipendente «in sede di libero interrogatorio».
Tale nodo dovrà essere sciolto in Corte d’Appello – cui la questione viene nuovamente affi data –, ricordando che «la rioccupazione del lavoratore illegittimamente licenziato» deve essere tenuta ben presente, se costituisce, come in questo caso, «allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche se per iniziativa del lavoratore
e non del datore di lavoro».
Questo elemento, quindi, dovrà essere attentamente soppesato per la «quantifi cazione del danno provocato» al lavoratore «dal licenziamento illegittimo».
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