AADI: “L’assegnazione delle mansioni inferiori è potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose”

“L’assegnazione delle mansioni inferiori è potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale

Ennesima sentenza della suprema corte che dimostra che demansionare/dequalificare un dipendente produce la conseguenza del risarcimento del danno patito sia esso patrimoniale e sia esso non patrimoniale, che attiene alla sua vita di relazione.

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La sentenza di Cass. n° 3485 del 23 febbraio 2016 riguarda il ricorso proposto da una società la contro la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Torino che aveva dichiarato l’illegittimità del demansionamento operato dalla società nei confronti di alcuni dipendenti e l’aveva altresì condannata ad assegnare costoro alle mansioni equivalenti ai rispettivi inquadramenti, oltre al risarcimento per il danno patito per effetto del demansionamento, quantificato per ciascuno nella misura del 30% della retribuzione mensile netta, con decorrenza con decorrenza a far data dal cambio delle mansioni.

La società aveva ceduto il contratto di lavoro dei suddetti dipendenti ad un’altra società giustificando tale atto come cessione di un ramo di azienda con la scusa che i suddetti non erano più idonei alle mansioni specifiche (addetti alla lavorazione) la nuova società cessionaria aveva nell’immediato demansionato i lavoratori mettendoli a fare le pulizie, scrive la corte di Appello “è evidente e non abbisognevole di ulteriore dimostrazione la dequalificazione consistente nell’adibire ad attività di pulizia chi in precedenza aveva svolto attività di produzione, caratterizzata da specializzazioni operative e da specifiche professionalità, quali sono tutte le mansioni svolte dai suddetti lavoratori, inserite nella declaratoria della II, III o della IV categoria, a fronte della qualifica di I categoria delle attività di pulizie”; inoltre smentisce le dichiarazioni dell’appellante poiché aveva prodotto certificati medici dei lavoratori che secondo la difesa erano idonei a spingere l’azienda al mutamento delle mansioni, nel merito la Corte di Appello dichiara anche nei casi in cui dalla documentazione medica prodotta emergano aggravamenti delle condizioni fisiche iniziali, con conseguente previsioni di limitazioni, lo spostamento ai servizi generali per lo svolgimento di attività di pulizie non appare affatto necessitato dalla natura degli aggravamenti rilevati che, in taluni casi, risultano tali da presentare controindicazioni, semmai, proprio per lo svolgimento del lavoro di pulizie e non per la prosecuzione, sia pure condizionata, delle attività produttiva in precedenza svolta, o che avrebbe dovuto essere svolta, per altro, continua la corte, nessuno dei suddetti dipendenti aveva espresso tacito consenso allo spostamento subito (infatti esplicita acquiescenza al trasferimento, presuppone inidoneità fisica alle mansioni precedentemente svolte).

La corte cassa la motivazione poiché quando il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme contrattuali deve necessariamente a pena d’improcedibilità, depositare insieme al ricorso, non già solo l’estratto come avvenuto nel ricorso de quo, ma  il CCNL   in forma integrale contenente anche le disposizioni disapplicate, cosa che evidentemente la ricorrente F automobili non ha fatto.

Inoltre la corte giustamente evidenzia che l’art. 2103 c.c. nella versione applicabile alla fattispecie e antecedente alle modifiche dettate dall’art. 3, D.Lgs n. 81/2015 c.d. “Job Act”, consentiva all’imprenditore la modifica delle mansioni del lavoratore a patto che queste fossero equivalenti alle ultime effettivamente svolte, secondo la giurisprudenza consolidata “mansioni equivalenti” devono essere intese non solo nel senso di pari valore professionale considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine di queste ultime a consentire un arricchimento del patrimonio professionale acquisito con le mansioni precedenti.

Nel valutare tale equivalenza non è sufficiente il riferimento astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alle specifiche competenze del dispendente in modo da salvaguardare il livello professionale acquisito  e di consentire lo sviluppo delle sue capacità  professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva  dinamica di valorizzazione e accrescimento del proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza.

Si esclude quindi che, le mansioni possano essere considerate equivalenti solo per il fatto di essere riconducibili ad un medesimo livello di inquadramento così per come esposto in contrattazione collettiva.

Invero è che, l’adibizione a compiti tra quelli ricompresi nell’ambito di in un livello di inquadramento inferiore nella scala classificatoria della contrattazione collettiva è sintomatica di una violazione dell’art. 2103 c.c. non superando quella prima verifica formale sulla ricomprensione in astratto delle mansioni mutate nella categoria d’inquadramento del lavoratore che la giurisprudenza di legittimità richiede ai fini del giudizio di “equivalenza”.

L’art. 2103 c.c. nel testo vigente ratione temporis impediva, di fatto, di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori, a differenza della novella introdotta dal su citato D.Lgs 81/2015 che consente, oggi, mutamenti in peius delle mansioni del lavoratore, a parte alcune eccezioni la deroga all’espressa previsione di nullità di ogni patto contrario contenuta nel secondo comma dell’art. 2103 c.c. si è sempre limitata a quei casi nei quali il sacrificio della professionalità era giustificato non dalle esigenze organizzative aziendali ma dal mantenimento del posto di lavoro, infatti, le esigenze di tutela del diritto al posto di lavoro sono prevalenti su quelle della salvaguardia della professionalità, sicché viene esclusa la legittimità al licenziamento per sopravvenuta infermità, quando sia possibili il ricorso ad altre attività non solo equivalenti ma anche inferiori (c.d. repechage).

Al di fuori quindi di queste particolari ipotesi, e visto che la ricorrente società aveva giustificato il demansionamento conseguente alla cessione del contratto con la soppressione di posti in azienda riconducibili alle qualifiche dei lavoratori, la corte giustamente ha sancito che non esiste un principio generale in base al quale, in caso di soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza si determini di conseguenza un affievolimento del diritto garantito dall’art. 2103 c.c. poiché comunque quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni, l’adibizione a diversi compiti deve seguire la regola dell’equivalenza, anche nel caso in esame di cessione di azienda, è sempre in vigore il principio secondo il quale l’adibizione a mansioni incoerenti con l’inquadramento iniziale costituisce sempre un demansionamento in violazione dell’art. 2103 c.c..

In conclusione; “l’assegnazione delle mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale,  poiché rappresenta di fatto una perdita della professionalità di contenuto patrimoniale consistente nell’impoverimento della capacità professionale e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, con un pregiudizio subito da perdita di chance, ossia di ulteriori opportunità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali, la perdita della professionalità è un bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato, la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente foriero di pregiudizio a beni di natura immateriale come la salute, con una lesione di un diritto inviolabile della persona da valutarsi ad opera del giudice di merito in via equitativa.

Direttivo AADI

 

Redazione Nurse Times

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