Infermieri

Una paziente all’infermiere “Che brutto mestiere che fate, mi dispiace per voi”

È questo quello che ho sentito dire da una paziente rivolgendosi al mio collega.

Eravamo nel pieno della nostra attività di reparto, e ci stavamo dedicando alle cure di base dei nostri pazienti. Non ho potuto evitare di ascoltare, mentre ero a due letti di distanza.

“Che brutto mestiere che fate, mi dispiace per voi”.

Non sono riuscita a trattenermi e ho detto ad alta voce “ma grazie signora!” con il mio solito fare ironico. Probabilmente lei non ha capito la mia sfumatura, e ha continuato per smorzare il tono “però siete tutti bravi qui dentro”.

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Durante il mio giro di elettrocardiogrammi, ho cominciato a riflettere.. è esattamente questa l’immagine che noi riflettiamo sugli altri? Ancora? La gente parla ancora di mestiere, di mansioni, di ordini da eseguire.. io poi, oggi sono stata chiamata per l’ennesima volta “signorina”, non infermiera.

Non so, probabilmente non ho il tipico viso da infermiera. Forse avrei dovuto avere i capelli raccolti in modo diverso, o forse è la voce, forse dovrei avere una voce più dura? Più stridula? Più ferma? Più autoritaria? O forse mi sbaglio.. e invece non è abbastanza dolce, o abbastanza accondiscendente…

Senza tanto indugiare sulla mia rappresentazione mentale di “infermiera credibile”, ritorno al mio primo pensiero.

Ma possibile che oggi, con una pandemia che va avanti da quasi due anni, con tutto quello che abbiamo fatto e che facciamo, con tutto il coraggio che abbiamo avuto e che continuiamo ad avere, con tutti i rischi che abbiamo corso e che corriamo anche adesso (che poi in realtà li abbiamo sempre corsi, solo che ultimamente abbiamo fatto più notizia), con tutte le notizie che sono emerse sul nostro lavoro recentemente e che finalmente hanno dato voce ai nostri problemi, io arrivo in reparto in un giorno lavorativo qualunque e devo imbattermi in questa considerazione?

Per carità, sono sicura che quella signora lo abbia detto perché a modo suo ha voluto elogiarci e complimentarsi per il modo in cui noi ci prendiamo cura di lei. Ma io vedo una vera e propria barriera tra noi infermieri e la gente, quella barriera che cerchiamo di abbattere ormai da anni.

È come se non riuscissimo mai ad andare avanti, e per il resto della popolazione noi siamo sempre i vecchi infermieri legati al mansionario. I semplici esecutori degli ordini medici.

Qualcuno potrebbe dire “Dai, sicuramente sono le persone anziane quelle a capire di meno la vostra evoluzione, i più giovani sanno bene con chi hanno a che fare”

Vi racconto un piccolissimo aneddoto: tanti anni fa cominciai il mio primo anno di tirocinio da studentessa infermiera. Conoscevo all’epoca una ragazza 4 – 5 anni più grande di me che mi disse “ma chi te lo fa fare.. date tutta questa importanza alla cosa, vi prendete una laurea addirittura, per *lavare il corpo delle persone?”(ovviamente si era espressa in modo molto più colorito, ma lascio a voi immaginare esattamente come).

Ora voi questa affermazione come la potete giustificare? Era una ragazza “anziana” dentro?

Io non le diedi molto peso (ero convinta che io e lei viaggiassimo su binari della vita completamente opposti), piuttosto ho aspettato pazientemente il momento in cui lei potesse ricredersi. E sono lieta di dirvi che in seguito si è dovuta rimangiare quelle famose parole.

In ogni caso, io ormai avevo finito il mio giro di elettrocardiogrammi, e stavo per iniziare la preparazione della terapia. Ho voluto fermare questo vortice di pensieri per andare avanti più serenamente durante il turno, ma voglio lanciare un messaggio a tutti i miei colleghi. Un messaggio che è esattamente la conclusione del mio vortice: non fatevi fermare da tutte queste parole, non demoralizzatevi, non gettate la spugna. Non pensate “tanto ormai è così, non siamo niente e nessuno” o “la gente ci vedrà sempre nello stesso modo”.

Dobbiamo essere orgogliosi di ciò che siamo, di ciò che facciamo, della nostra continua crescita professionale.
Solo così possiamo portare sempre più in alto la figura dell’infermiere.

Non sto parlando di corsi di aggiornamento, di nuove abilità tecniche, di nuove conoscenze, di nuovi titoli.. sto parlando solo ed esclusivamente della nostra testa.

Io sono felice così, sono felice mentre “faccio il mio mestiere”.
Tanto dentro di me c’è la parola PROFESSIONE scritta in stampatello e grassetto e che difendo da tutti gli attacchi esterni.

Buon lavoro a tutti.

Francesca Biscosi

Francesca Biscosi

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Francesca Biscosi

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