Tubercolosi, un vaccino per endovena potrà metterla ko.

Uno studio rivela che il semplice cambiamento della posologia e della modalità di somministrazione può aumentare la protezione.

Ridurre i casi e le vittime, entro il 2035, del 90% e del 95% rispetto al 2015: ecco l’obiettivo. Al centro c’è la tubercolosi, una patologia che nel mondo, ogni anno, colpisce 10 milioni di persone e fa registrare 1,5 milioni di morti. Fortunatamente casi e numero dei decessi sono in discesa e il merito è dovuto a farmaci sempre più efficaci. Ma la spallata definitiva potrebbe arrivare dal vaccino. In uno studio pubblicato su Nature, ad opera dei ricercatori statunitensi del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, si è dimostrato che il semplice cambiamento della posologia e della modalità di somministrazione del vaccino oggi disponibile – la cui efficacia non è molto elevata – sarebbe già in grado di aumentare la protezione. Risultati incoraggianti, seppure ottenuti nei modelli animali, che potrebbero contribuire all’eradicazione. Oggi le cronache raccontano di casi sporadici: tra gli ultimi in ordine di tempo, quello di Rovigo, che ha coinvolto un bambino di cinque anni. In Italia si registrano arca 4mila casi all’anno e l’incidenza è inferiore a 10 casi ogni 100mila abitanti, soglia entro la quale un Paese è “a bassa endemia”. Causata dal microrganismo Mycobacterium tuberculosis, la malattia colpisce prevalentemente i polmoni. «La tubercolosi – spiega Antonietta Filia, dell’Istituto Superiore di Sanità – si trasmette per via aerea, attraverso le secrezioni respiratorie emesse da un individuo contagioso, per esempio tramite saliva, starnuti o colpi di tosse. Non tutte le persone che si infettano, però, sviluppano la malattia. Il sistema immunitario, infatti, può far fronte all’infezione e il batterio rimanere quiescente per anni: la condizione è l’infezione tubercolare latente». Secondo l’Oms, ne è affetta circa un quarto della popolazione mondiale. Le persone con infezione tubercolare latente non hanno sintomi e non sono contagiose. Questi individui, tuttavia, sono un serbatoio di potenziale infezione. «Quando la malattia è in fase attiva – continua la specialista – il trattamento consiste nella somministrazione di diversi antibiotici per un periodo piuttosto lungo. Si stima che il trattamento e la diagnosi precoce abbiano contribuito a salvare, solo tra 2000 e 2017, 54 milioni di persone. Ma la vera sfida, oltre ad evitare il contagio, è prevenire il passaggio dell’infezione latente a malattia attiva»
. Sul fronte della diagnosi, l’esame preliminare più diffuso è il test della tubercolina: la reazione positiva indica che il sistema immunitario è venuto a contatto con il batterio della tubercolosi. In questi casi occorre accertare o escludere una malattia attiva, soprattutto nei polmoni, attraverso altri esami. Il vaccino Bacille Calmette Guérin (Bcg), sul mercato da anni, non previene il contagio, bensì l’evoluzione della malattia: è efficace nella prevenzione di forme gravi infantili della malattia e viene utilizzato nei piccoli residenti in quei Paesi – oltre 150 – con elevata incidenza di tubercolosi. Purtroppo negli adolescenti e negli adulti, categorie dove è cruciale fare prevenzione, il vaccino non ha grande efficacia. «Ma perché il vaccino prevenga l’infezione o protegga le persone con infezione latente contro lo sviluppo della malattia attiva – spiega Filia – è necessario che induca una risposta forte e sostenuta da parte delle cellule T a livello tissutale». Ecco perché ci si concentra sull’individuazione di nuove forme di vaccino più efficaci, mentre l’idea di sperimentare la somministrazione endovena è arrivata da una serie di osservazioni. Queste hanno documentato la migliore efficacia del vaccino antimalarico endovena sia in modelli animali sia nell’uomo. Cambiando la modalità di somministrazione – da intramuscolare ad endovena – e utilizzando un dosaggio elevato, si è registrato che nove animali su 10, vaccinati con il vaccino antitubercolare Bcg, erano protetti dalla malattia in modo elevato. Ancora più interessante è il fatto che sei su 9 non mostravano segni di infezione documentabile a livello tissutale. I rimanenti 3 mostravano una “conta” ridotta di batterio infettante a livello del polmone. «Sono risultati importanti – conclude l’esperta –. Ora, però, dovranno essere ampliati: sia per testare dosi differenti e identificare il dosaggio più basso possibile in grado di essere protettivo, sia per studiarne più a fondo la sicurezza, soprattutto in presenza di un’infezione latente». Redazione Nurse Times Fonte: La Stampa  
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