Trauma cranico: un test del sangue per capirne la gravità

Uno studio americano ha individuato due biomarcatori i cui livelli ematici potranno essere in futuro molto utili per stimare la gravità del trauma cranico.

Nella nostra penisola, ogni 100mila abitanti si verificano ogni anno circa 250 casi di trauma cranico, con oltre 2.000 ricoveri ogni milione di abitanti. Un colpo alla testa può dare luogo a diverse conseguenze immediate ed una di queste è il DAI, ovvero il danno assonale: questo è provocato dall’impatto del cervello sul cranio e dallo stress meccanico impresso ai tessuti dal loro rapido spostamento; lo strappo delle fibre nervose che ne consegue può causare la degenerazione spesso grave e irreversibile della sostanza bianca dell’encefalo.

Ma non tutte le lesioni avvengono in modo così repentino: quelle secondarie, causate da danni cellulari, possono comparire anche a distanza di ore dall’evento traumatico. E l’utente, dapprima asintomatico, può poi sviluppare sintomi come stordimento, mal di testa, perdita di memoria e depressione.

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Perciò, una valutazione del livello di gravità dei traumi cranici concussivi (TBI) diventa di importanza vitale per scegliere il miglior trattamento in grado di contenere gli effetti nocivi del colpo alla testa. Gli esami diagnostici come la TAC, però, non sono in grado di individuare tutte quelle casistiche che, potendo evolvere e peggiorare, richiederebbero ulteriori e successivi accertamenti; in più vi è il fatto che per una serie di ragioni (costi in primis) queste indagini  non vengono eseguite su ogni singolo paziente traumatizzato. Così afferma la responsabile dello studio Linda Papa del Department of Emergency Medicine dell’Orlando Regional Medical Center in Florida riferendosi alle TAC:

“Non vogliamo eseguire procedure non necessarie su persone che non ne hanno bisogno”

Per questo motivo, gli scienziati sono da anni alla ricerca di biomarcatori specifici che possano prontamente permettere l’individuazione dei casi più a rischio. E in uno studio appena apparso sulla rivista Jama Neurology

, un team di ricercatori americani si sono concentrati in particolare su due proteine ematiche (GFAP e UCH-L1), già associate a TBI moderato e grave, e ne hanno monitorato i livelli nel sangue subito dopo il trauma in 584 pazienti del Centro Traumatologico di livello 1 dell’Orlando Medical Center; metà dei quali con concussione cerebrale ed il restante 50% con altri tipi di trauma (come fratture ossee e lesioni toraciche).

I campioni di sangue sono stati prelevati circa 20 volte, iniziando dalle quattro ore dall’infortunio e terminando al settimo giorno successivo. Tutti i soggetti coinvolti hanno mostrato un chiaro aumento del livello delle proteine GFAP e UCH-L1, soprattutto quelli che avevano un TBI.

UCH – L1: proteina che viene rilasciata dai nervi dell’encefalo quando sono sottoposti a stress. I suoi livelli salgono rapidamente a ridosso dell’infortunio e raggiungono il loro picco in otto ore;

GFAP: proteina fibrillare acida della glia. Mostra il suo picco 20 ore dopo la lesione per diminuire poi costantemente. Rimane individuabile nel torrente ematico anche dopo sette giorni dal trauma.

Secondo i ricercatori autori dello studio, grazie a questi due biomarcatori sarebbe possibile individuare i casi di TBI con un’accuratezza del 97%. Così continua Linda Papa:

“Non credo che un esame del sangue sia risolutivo ma sarebbe un bellissimo strumento da utilizzare in clinica per sostenere i nostri processi decisionali”

I risultati della ricerca, che sono solo preliminari, potrebbero in futuro rappresentare un valido supporto alla medicina d’urgenza, ma non solo: con un semplice prelievo di sangue eseguito in ambulanza, infatti, si potrebbe avere una immediata stima della gravità del trauma extraospedaliero e predisporre così subitamente le relative operazioni di supporto e la più corretta accoglienza al DEA.

Alessio Biondino

Fonte: www.ilsecoloxix.it

Foto: www.prepper.it

Redazione Nurse Times

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