Toglietemi quel sacchetto. “Non è possibile signora”

Non l'ho mai guardata la mia pancia. Il sacchetto lo cambia mio marito mentre giro la testa dall'altra parte e il silenzio tra noi si dilata.

Non l’ho mai guardata la mia pancia. Il sacchetto lo cambia mio marito mentre giro la testa dall’altra parte e il silenzio tra noi si dilata.

Lo costringo ad inalazioni malsane e, per me, insopportabili.

Lo costringo ad indossare i guanti in lattice che gli procurano tremendi eczemi tra le nocchie e lo costringo a pulirmi questo ano artificiale come se fossi una neonata sulla culla in balia di una crisi di pianto perchè senza succhiotto.

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Ogni giorno, da otto mesi, il rito si ripete quotidianamente e non ne posso più.

Odio la sacca e la mia vita.

Anche se questo pezzo di nylon me l’ha salvata, resta sempre un pezzo di nylon pieno di feci, appiccicato alla mia pancia e con un adesivo che non sopporto.

Che il cancro si insinuasse nel mio ano, non lo avrei mai potuto immaginare.

Pensi a circoli di cellule impazzite in un polmone di un fumatore, o in un esofago devastato dall’alcol; pensi al cancro al seno, in quanto donna, o all’utero, di cui tanto si parla.

Ma in quel posto, là, nascosto e coperto, non ti immagineresti mai che un’elica di dna impazzita perdesse i pezzi. Nell’ano no.

Quando andavo in bagno a scaricare con spinte forsennate e mi pulivo lasciando tracce di sangue, pensavo che fosse una cosa normale.

Emorroidi, piccole ulcerette, cose così. Non certo un cancro.

Mio marito usava sempre un tono scherzoso ma offensivo con cui camuffava i suoi insulti. Aveva ragione. Testarda.

Lui aveva un’attenzione scientifica in tutte le cose e cercava di convincermi ad andare dal medico. Io pensavo che “il brutto male” non mi avrebbe mai colpito.

Mia madre stava bene, mio padre anche. Nessun familiare aveva avuto storie di cancro. La mia era una famiglia fortunata. Il tumore mi sembrava qualcosa che potesse capitare solo agli altri.

E’ trascorso un anno prima che mio marito mi caricasse in auto per portarmi dal dottore con la forza. Ormai ero diventata dipendente dai lassativi e dai clisteri e trascorrevo il mio tempo sul wc.

La faccia era bianca come il lenzuolo cangiato. Lui, mio marito, era sempre più insopportabile con quella faccia istrionica o da bambino calvo.

Mi diceva che avevo la voce da fata urlatrice e la capacità di far diventare l’aria solida di nervosismo. Io, non ne volevo sapere di interventi, sacchetti e chemioterapie. Nossignore.
Ma non ho vinto io.
E adesso toglietemi questo sacchetto vi prego. “Non è possibile signora”.

Finchè non termino le chemioterapie dovrò essere condannata a questo supplizio che cerco di nascondere tra i vestiti vaporosi e ampi, che schiaccio con una guaina sempre più strizzata in vita e che riempio di prodotto deodorante.

Mi caverei la pelle se potessi.
La nostra casa è un tutt’uno con il bagno ormai, perchè vivo con il terrore che questo sacchetto si stacchi, che il contenuto scivoli lungo le gambe e che io ci finisca seduta sopra per una scivolata a terra.

Ma non è mai successo. Sono solo fobie.

Stasera seguo il consiglio della mia stomaterapista e butto giù due righe.
Scrivo la mia storia su un quaderno dove l’umidità della sera sta mollando i fogli.

La penna scivola a malapena, quasi che anch’essa esitasse a lasciare un ricordo di questa esperienza.
Ma i miei pensieri interni non perdono la scansione usuale e mi costringono ad indossare un camicione. E’ un ampio sari, sdrucito, come il mio umore.

Mi dà sicurezza. Copre il sacchetto e il suo contenuto. E mentre, tra una frase e l’altra, sbriciolo un pezzo di torta per scartare l’uvetta che non posso mangiare, osservo mio figlio che attira la mia attenzione: tiene le braccia stranamente conserte.

Ha un modo di camminare un po’ sbadato e mi fissa con quei due occhi color argilla intensi e cangianti. Poi, si nasconde le mani nelle tasche e prende un biglietto che si porta al naso, come se odorasse di profumo. Si avvicina a me.

Ho un sorriso gommoso. Mi porge il biglietto.
Lo apro.

“Come farei senza di te mamma…”.

In un secondo comprendo tutto il motivo della mia esistenza e mi appallottolo come uno straccio sulla sedia, con due lacrimoni che mi rigano il volto.

Lui, sorregge lo straccio di mamma e mi abbraccia fortissimo.
Come farei io senza poter più vedere quegli occhi color malva? Mi chiedo.

Da questo momento il sacchetto me lo cambierò da sola. Sento che è arrivato il momento di accettare e combattere. Non subire.

Per accettare una stomia ci vuole tempo. Giorni o settimane per alcuni. Mesi o anni per altri. Ma quel giorno prima o poi arriva. E se c’è una famiglia, arriva. Eccome se arriva.

 

Fanni Guidolin, stomaterapista

 

tratto dal blog Pelvicstom di Fanni Guidolin

 

Redazione Nurse Times

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