Shock nel mondo della ricerca: “Ho contratto l’Hiv in laboratorio”

“La mia vita è distrutta”, dice la protagonista della vicenda, che ha intentato una causa milionaria contro le Università di Padova e Ginevra.

Credeva nella ricerca, studiava un modo per sconfiggere il virus dell’Hiv. Sette anni dopo, si ritrova sieropositiva, infettata negli stessi laboratori in cui ha condotto gli esperimenti propedeutici alla tesi di laurea. L’incubo per una studentessa universitaria lombarda si materializza tra provette e microscopi, ma lei, ignara di tutto, continua nella sua attività di studio, convinta di manipolare virus “difettivi”, quindi impossibilitati alla replicazione. Il mondo le crolla addosso quando viene fermata come donatrice di sangue: «Lei è sieropositiva», le comunica il medico che la segue. «Da quel momento la mia vita è finita», dice ora, proprio nei giorni in cui sta predisponendo una causa con richiesta di risarcimento milionario alle Università di Padova e Ginevra. La portata del caso è tale da mettere in crisi anche la comunità scientifica, che da anni ormai si interroga su come possa essere accaduto. Nel 2017 un pool di ricercatori degli ospedali San Gerardo di Monza e Roma Tor Vergata, guidato dal professore Andrea Gori, ha condotto una ricerca pubblicata sulla rivista accademica Clinical Infections Disease. Il caso è stato studiato, sezionato, indagato al Croi di Boston, ma la conclusione non è incoraggiante: “Nonostante un’indagine approfondita, la mancanza di identificazione del ‘punto di rottura’ che ha portato alla contaminazione e il modo di trasmissione, che rimane oscuro, ostacolano la piena comprensione di questo incidente”. La studentessa, iscritta all’Università di Padova, era stata inviata all’ateneo di Ginevra per condurre una serie di esperimenti sui virus modificati dell’Hiv, per quello che doveva essere l’argomento della sua tesi di laurea. Lavorava in un laboratorio di punta nell’ambito della ricerca, con un profilo di rischio basso, un Bsl 2 (bio safety lab), sigla che misura il livello di sicurezza adottato. Con ebola, per avere un parametro, si è usato il laboratorio con Bsl 4. Per ragioni ancora sconosciute la ragazza si è infettata con un virus identico a quelli con cui stava lavorando
. L’ipotesi più probabile, secondo la comunità scientifica, è che sia venuta a contatto con ciò che stava manipolando. Le infezioni negli operatori di laboratorio sono rarissime. Non accadeva da anni. «Le due domande che ci siamo posti sono molto semplici: come e perché? – sintetizza Carlo Federico Perno, professore ordinario di Microbiologia all’Università di Milano –. Ci siamo chiesti se per caso avesse contratto il virus per questioni non di laboratorio, ma questa ipotesi è stata indagata e subito esclusa». Il virus contratto è identico a quello costruito in laboratorio, il NL4-3 + JRFL, dunque non “circolante nella popolazione”. Non risultano inoltre incidenti, come la rottura di un guanto o una puntura. «La richiesta di risarcimento è milionaria ma ancora indeterminata – spiega Antonio Serpetti, avvocato del foro di Milano che assiste la ricercatrice –. Sarà proporzionata al danno biologico, morale, esistenziale e patrimoniale per tutte le occasioni di lavoro perse o a cui la mia assistita ha dovuto rinunciare per motivi di salute». La vita è cambiata radicalmente per questa ragazza. Oggi lavora comunque in ambito scientifico, ma è stata costretta a ridimensionare di molto le sue aspettative. «Il mio fidanzato mi ha lasciato dopo una relazione durata anni, e io sono sprofondata in uno stato di depressione acuta», confessa. La linea dell’avvocato Serpetti per il processo che si terrà a Padova nel 2020 si fonda su perizie di parte che confermano come quello della ricercatrice sia un virus da laboratorio, contratto nell’ambito della sua attività di ricercatrice. La stessa Università di Padova avrebbe prodotto almeno due perizie per identificare il ceppo del virus, che escluderebbero i laboratori padovani come fonte del contagio. Ma lei non molla: «Mi sono sentita abbandonata dalle istituzioni in cui credevo. Faccio questa battaglia perché non succeda ad altri». Redazione Nurse Times  
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