La sostanza, testata finora solo sui topi, sembra inoltre indurre un livello di dipendenza inferiore a quello della morfina, dell’eroina e di altri farmaci analgesici (come codeina, ossicodone, idrocodone). Questo aspetto, sottolineano i ricercatori, va però confermato da ulteriori attenti studi in altri modelli animali e successivamente testato con cautela negli esseri umani, in cui la dipendenza è legata non solo a fattori fisiologici ma anche psicologici.
La capacità degli oppioidi di indurre il loro potente effetto contro il dolore è dovuta al legame con tre recettori che si trovano sulla superficie delle cellule cerebrali e del midollo spinale, chiamati recettore mu, delta e kappa. Il più potente è il recettore mu, che partecipa alla risposta antidolorifica, alla depressione respiratoria, al senso di gratificazione indotto dalla sostanza e allo sviluppo della dipendenza.
In particolare, l’attivazione del recettore mu innesca nelle cellule due differenti percorsi biochimici, uno dei quali (mediato dalla proteina G) agisce principalmente sulla sensibilità al dolore, mentre l’altro (mediato dalla proteina beta-arrestina), è il principale responsabile della dipendenza e, ancor più, della depressione respiratoria.
Attraverso un complesso lavoro di screening al computer della struttura di oltre tre milioni di molecole, i ricercatori diretti da Aashish Manglik sono riusciti a identificare le caratteristiche di una molecola in grado di realizzare un’attivazione solo parziale del recettore mu e in particolare della sua parte che controlla l’effetto analgesico.
I ricercatori hanno quindi sintetizzato il composto, chiamato PZM21. La sostanza ha mostrato di avere non solo una capacità analgesica pari a quella della morfina, ma anche una durata d’azione superiore.
Tutti gli aspetti legati a questa nuova scoperta possono essere approfonditi nell’articolo pubblicato sulla rivista Nature (VEDI).
Giuseppe Papagni
Fonte: www.nature.com
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