Sanità, è allarme sulla sostenibilità del modello italiano

Riprendiamo un’inchiesta pubblicata da L’Espresso. Eccone alcuni estratti.

Nel 2018 il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni. Un compleanno poco allegro perché proprio quest’anno, per la prima volta in assoluto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme sulla sostenibilità del modello italiano.

Stando ai dati pubblicati dal Consiglio dei ministri nel Documento di economia e finanza, nel 2018 il rapporto tra la spesa sanitaria e la ricchezza prodotta nel Paese, cioè il Pil, scenderà a quota 6,5 percento, soglia limite indicata dall’Oms. Sotto, non è più possibile garantire un’assistenza di qualità e neppure l’accesso alle cure, con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita. L’emergenza continuerà nel 2019, quando si scenderà al 6,4 per cento, per poi sprofondare al 6,3 nel 2020.

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Ormai sono dieci anni che in Italia è cominciata la politica dei tagli: meno 70mila posti letto, meno diecimila professionisti, meno 175 ospedali; giovani medici precari; macchinari nell’83 percento dei casi obsoleti. E vecchi primari: il 52 percento dei camici bianchi ha più di 55 anni, record europeo. «Fino al 2015 i tagli sembravano giustificati dalla crisi economica, ma anche adesso che abbiamo imboccato la ripresa il definanziamento è inarrestabile», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, dove da anni si studia con analisi e report la sanità italiana.

Un segno tangibile dell’affanno del sistema sono le liste d’attesa fuori controllo. Il risultato è che molti italiani “consumano meno sanità”, cioè spesso rinunciano: alle analisi, alla prevenzione, alle terapie. Dice l’Istat che il 6,5 percento della popolazione ritarda o non si cura più. Intanto i sindacati di medici e infermieri hanno deciso di entrare in stato d’agitazione, preannunciando disagi negli ospedali pubblici. La protesta, dicono, è l’unico modo per attirare l’attenzione dei politici, tutti presi dalla campagna elettorale.

I dottori chiedono anche più soldi (i loro salari sono fermi da dieci anni) e lo sblocco del turnover, che consentirebbe l’ingresso di nuovo personale negli ospedali. Legittimo, ma il rapporto Cergas dice che l’emergenza più grave è un’altra: mentre il numero dei medici è pressoché in linea con quello della Germania e della media europea, sul fronte degli infermieri andiamo malissimo: ci sono 5,4 unità ogni mille abitanti contro i 9 della media Ocse, i 10,2 della Germania, i 18 della Svizzera. E in Italia quelli in servizio, sia per far quadrare i conti famigliari (guadagnano 1.200 euro al mese o meno) sia per non lasciare i reparti scoperti, sono spesso costretti a doppi turni, fino a 16 ore consecutive: con un inevitabile crollo d’ attenzione e di cura per i pazienti e con un massacro per loro.

Anche per i posti letto in Italia siamo molto indietro: 3 ogni mille abitanti, contro i 4 della media Ocse e gli 8,1 della Germania. «In Italia un medico costa come tre infermieri. Forse bisognerebbe puntare su questi ultimi, ma una svolta di questo tipo, in Italia, non è facile da mettere in atto», dice il professor Longo della Bocconi.

L’altra emergenza sono i giovani. Il calvario della precarietà è iniziato nel 2001, quando sono comparsi i primi contratti a termine. Oggi ci sono 12mila specialisti con rinnovo annuale e una paga base di circa 80 euro al giorno. Gli anni di attesa per una stabilizzazione sono 15. Dalle regioni al collasso, tipo la Campania e la Calabria, i giovani fuggono e cercano lavoro al Nord.

Ma per i medici la discesa verso gli inferi del precariato è ancora lunga e dal girone del cottimo si passa a quello del caporalato. Così lo definisce Alessandro Vergallo, presidente dei medici anestesisti e rianimatori, che ha inviato una serie di segnalazioni al ministero indicando i nomi delle cooperative che, in regime di subappalto, gestiscono interi reparti di ospedali pubblici e cercano urgentemente medici. Vergallo sostiene che l’assunzione di medici attraverso coop è diventata una prassi, avallata dalla patologica carenza di personale.

In fondo alla catena sanitaria, gli ultimi sono i medici neolaureati e gli specializzandi. Il sistema formativo permette a un solo medico laureato su due di accedere al percorso di specializzazione. Quest’anno per 6.676 contratti di specialistica, si sono presentati in 15 mila, dicono da Federspecializzandi. Sono rimasti appiedati 8mila neolaureati, costati allo Stato 24 mila euro ciascuno per la formazione. Ed è probabile che molti prenderanno la via dell’estero, e che saranno ben accolti da Inghilterra, Germania e Francia.

Fonte: L’Espresso

Redazione Nurse Times

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