Infermieri

Profili di responsabilità dell’infermiere nel suo agire professionale

“Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva (…)” 

“Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva (…)” [1].

Questo l’incipit della L. 251/2000, con il quale si sottolinea, innanzitutto, l’autonomia di cui godono oggi le professioni sanitarie.

Autonomia che, come spiegato nel nostro profilo professionale, si esplica nella piena e totale responsabilità del processo assistenziale. Il DM 739/1994 individua funzioni autonome (l’identificazione dei bisogni di assistenza infermieristica, la pianificazione, gestione e valutazione dell’intervento assistenziale infermieristico, etc…) [2] e funzioni collaborative che sono, però, autonome nella scelta delle modalità di attuazione.

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Infatti, come ribadito da Barbieri e Pennini in merito alla corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico – terapeutiche, “questa funzione (…) sottende la capacità da parte dell’infermiere di valutare le condizioni della persona a cui si sta applicando la prescrizione, di decidere ad esempio di rimandare o sospendere temporaneamente il trattamento se la situazione lo richiede e di attivare le risorse necessarie per far fronte all’eventuale problema [3].”

Nulla di automatico, dunque: l’autonomia del professionista comporta responsabilità in tutto ciò che fa, da solo o in collaborazione con altre figure professionali.

Questa responsabilità è di tipo sia commissivo che omissivo. La responsabilità omissiva si basa sul dettato dell’art. 40 c.p. laddove si sostiene che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.[4]

Ma l’infermiere quali eventi ha l’obbligo giuridico di impedire?

L’infermiere, nello svolgimento della sua professione, è portatore di una responsabilità di tipo omissivo riconducibile a una specifica posizione di garanzia nei confronti del paziente. Come si legge nella sentenza della Cassazione n. 5/2018, il fondamento di tale obbligo è insito proprio nell’autonomia professionale dell’infermiere “quale soggetto che svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente”. [5] L’infermiere, inoltre, “va oggi considerato non più ausiliario del medico ma professionista sanitario.”

Nella vicenda al centro della sentenza appena nominata risulta infatti cruciale la responsabilità infermieristica nel non aver attribuito l’adeguata importanza ad alcuni segni quali ipotensione e perdite ematiche anomale nel postoperatorio, nel non aver proceduto al monitoraggio dei parametri vitali e ad avvisare il medico dell’aggravarsi del quadro clinico.

La giurisprudenza si è d’altronde occupata diverse volte dell’argomento: nella sentenza della Cassazione penale n. 24137/2016 si sottolinea come l’infermiere sia portatore di una posizione di garanzia e di “obblighi e compiti cautelari essenziali nella salvaguardia della salute del paziente” [6].

In Cassazione penale n. 2541/2015 ancora si ribadisce come la responsabilità di tipo omissivo dell’infermiere sia del tutto autonoma rispetto a quella del medico [7].

La posizione di garanzia dell’infermiere è ben esplicitata anche nel nostro codice deontologico laddove, all’art. 9, si afferma che “l’infermiere, nell’agire professionale, si impegna ad operare con prudenza al fine di non nuocere” (e questo non nuocere non può ricomprendere unicamente condotte commissive, giacché anche nel non fare l’infermiere ha la possibilità di arrecare danno) e all’art. 29 laddove ribadisce che “l’infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari”.

Ma siamo sicuri che il professionista riesca ad approntare la giusta sorveglianza all’interno di un contesto sanitario nazionale nel quale la carenza di organico si fa tema sempre più pressante?

In uno studio del 2015, circa un terzo dei professionisti partecipanti ha riportato tra le cure mancate la valutazione del paziente (37.6%) e la rilevazione dei segni vitali (35.4%), oltre a ritardi nella somministrazione della terapia. Le ragioni principali sono risultate legate all’inadeguatezza delle risorse umane in termini quantitativi e all’aumento imprevisto del carico di lavoro dovuto a ricoveri improvvisi o peggioramento delle condizioni cliniche dei degenti [8].

In un altro studio è stato dimostrato che un aumento del carico di lavoro di un paziente per ogni infermiere accresce la probabilità di decesso entro 30 giorni dal ricovero del 7% [9].

Chiunque lavori in corsia sa bene di cosa si sta parlando, sa che non ci si può più basare sul minutaggio per stabilire qual è l’organico adeguato per far fronte alle necessità assistenziali di pazienti sempre più complessi. Lo staffing ritenuto ideale è di 1 a 6, laddove nelle realtà italiane ci si imbatte in ben altri numeri.

A questo punto viene da domandarsi a chi siano in capo le responsabilità, soprattutto quando, a causa dell’inadeguatezza dell’organico, la salute dei cittadini viene sottoposta a maggiori rischi. Chi è responsabile per una sorveglianza inadeguata, il professionista portatore di una posizione di garanzia, costretto a lavorare in un contesto che non tutela né lui né l’assistito?

A questo punto dobbiamo ritornare al codice deontologico, il quale, vale la pena ricordarlo, è idoneo a delineare il campo di attività e di responsabilità dell’infermiere grazie all’art. 1 della legge 26 febbraio 1999, n. 42 [10].

Il codice deontologico parla alla coscienza del professionista, esortandolo a essere membro attivo della comunità, al punto da incitarlo a denunciare ogni carenza che possa comprometterne l’operato. Non ci riferiamo al tanto discusso art. 49 (che pure invita a rifiutare la compensazione che sia abituale) ma a quello precedente, il 48 “l’infermiere, a diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione ai responsabili professionali della struttura in cui opera o a cui afferisce il proprio assistito” e a un altro ancora.

L’art. 51, il quale recita: “ l’infermiere segnala al proprio Collegio professionale le situazioni in cui sussistono circostanze o persistono condizioni che limitano la qualità delle cure e dell’assistenza o il decoro dell’esercizio professionale.”

Allora la vera domanda è: noi infermieri come ci poniamo di fronte a queste esortazioni? Come ci poniamo  – infermieri clinici ma anche docenti, coordinatori e dirigenti – tutti?

 

Daniela Pasqua

 

[1] L. 251/2000

[2] DM 739/1994

[3] Giannantonio Barbieri, Annalisa Pennini, Le responsabilità dell’infermiere. Dalla normativa alla pratica. Carocci Faber, 2015.

[4] Art. 40 codice penale

[5] Cassazione penale sez. IV, sentenza n. 5/2018

[6] Cassazione penale n. 24137/2016

[7] Cassazione penale n. 2541/2015

[8] Palese, A., Ambrosi, E., Prosperi, L., Guarnier, A., Barelli, P., Zambiasi, P., & Saiani, L. (2015). Missed nursing care and predicting factors in the Italian medical care setting. International Emergency Medicine, 10(6), 693–702.

[9] Aiken, Linda H et al., Nurse staffing and education and hospital mortality in nine European countries: a retrospective observational study, The Lancet, Volume 33, Issue 9931, 1824 – 1830)

[10] Legge 26 febbraio 1999, n. 42

Redazione Nurse Times

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