Nursing narrativo: “La storia di Giovanni”

Raccontare per assistere, raccontarsi per guarire. A cura di Cosimo Della Pietà (infermiere ADI) e Sara Tinelli (infermiera).

ABSTRACT

Il presente articolo nasce con lo scopo di raccontare una storia di  ricerca qualitativa, con l’utilizzo del nursing narrativo, al fine di considerare l’esperienza della malattia   nella sua totalità con vissuti emotivi e punti di vista differenti. Il racconto è frutto delle informazioni raccolte durante una serie di incontri, tenuti nell’arco di sei mesi e sarà rielaborato e organizzato sotto forma di intervista. Questa ricerca metterà in evidenza il vissuto di un paziente affetto da patologia invalidante, e del figlio coinvolto nella gestione assistenziale della madre,  all’interno di un contesto in cui tutta la famiglia è parte attiva. La prima parte presenterà degli accenni  generali della patologia e le basi teoriche da seguire per una buona riuscita della ricerca qualitativa. La seconda parte, fulcro del lavoro, sarà dedicata alla fase sperimentale, il racconto dell’esperienza di una persona coinvolta nelle dinamiche assistenziali e famigliari, ricca di coinvolgimento emotivo dove il figlio,  racconterà la sua personale esperienza umana.

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Emergerà quanto una sola storia sia in grado di suscitare diverse esperienze emozionali anche nel lettore. La consapevolezza e la presa di coscienza approfondita   del fenomeno che si sta indagando, diviene essa stessa fonte di apprendimento per tutte le persone coinvolte nel processo di indagine, consegnando al lettore nuove esperienze conoscitive.

INTRODUZIONE

La miosite da corpi inclusi (IBM), è una malattia rara. E’ una malattia infiammatoria degenerativa, lentamente progressiva della muscolatura scheletrica, caratterizzata da debolezza o addirittura l’atrofia dei quadricipiti o dei flessori delle dita delle mani, con conseguenti cadute e difficoltà nel rialzarsi dalla sedia o dal suolo, nel camminare sulle scale, nell’afferrare, alzare e usare gli oggetti. Non è disponibile un trattamento risolutivo per la IBM. I pazienti di solito non rispondono alle terapie anti-infiammatorie o immuno-modulatorie. I trattamenti sintomatici comprendono gli esercizi fisici, l’ergoterapia e i dispositivi ortottici.

L’obbiettivo principale di questa ricerca qualitativa è quello di sviluppare una capacità di lettura del bisogno del paziente, attraverso la narrazione di un racconto di natura infermieristica, che va oltre lo stesso paziente trattato. Se questi è il principale soggetto delle cure, anche i familiari devono essere al centro dell’attenzione, come potenziali malati in caso di patologie congenite e, quali necessarie risorse di sistema da mobilitare, da preservare e potenziare. Le testimonianze raccolte dai soggetti intervistati delineano la dimensione valoriale della professione. In questa prospettiva, la costruzione di un rapporto terapeutico di fiducia diventa uno strumento centrale nell’assistenza, della prospettiva contemporanea e avanzata dell’assistenza “patient centered”.

METODI E STRUMENTI

Le narrazioni di malattia (Narrative based medicine e Nursing Narrativo) da tempo rappresentano la dimensione qualitativa e valoriale che integra quella della EBM e EBN. La centralità del racconto nella rappresentazione del proprio stato di salute, del proprio percorso di vita, o meglio di malattia, ha iniziato a farsi strada a partire dai primi studi condotti da Rita Charon (2001) della Columbia University, fino all’antropologia medica di Byron Good (1999).

La prospettiva narrativa diventa strumento dell’infermieristica, introducendo nell’universo disciplinare e pratico con ancora maggiore forza la dimensione illness della salute, oltre quella classica relativa al guasto bio-meccanico propria del disease o quella socio-istituzionale della sickness. In tal modo riesce a definirsi come strumento non solo di ricerca ed elaborazione teorica, ma anche e soprattutto come strumento per la valutazione e la ridefinizione stessa dell’infermieristica.

Il nursing narrativo utilizza la narrazione per il racconto dell’esperienza di malattia del paziente e/o del familiare. Si colloca in una dimensione privilegiata all’interno della relazione tra infermiere e paziente. In particolare, può essere utilizzata per migliorare la qualità della comunicazione, della vita e per migliorare la cura. Un altro strumento di nursing narrativo è l’autobiografia cioè una narrazione scritta dal soggetto stesso, nel nostro caso relativa alla condizione di malattia, ma è molto utilizzata anche nella formazione.

I diversi tipi di ricerca qualitativa possono essere definiti in base al tipo di domande che il ricercatore si pone nel momento in cui avvia la sua indagine. Il ricercatore è coinvolto nella situazione oggetto di studio, deve saper osservare e partecipare alla vita dei soggetti studiati per sviluppare una visione dal di dentro che è il presupposto della comprensione. Il ricercatore si inserisce in maniera indiretta nell’ambiente naturale allo scopo di descrivere le azioni e di comprenderne le motivazioni instaurando un rapporto di interazione personale con i suoi membri per un periodo di tempo relativamente lungo.

L’ideale sarebbe prendere appunti mentre i fatti stessi si svolgono. Le note devono riguardare la descrizione dei fatti e l’interpretazione del ricercatore (riflessioni teoriche e reazioni emotive). Le descrizioni, le interpretazioni dell’osservatore e le interpretazioni dei soggetti studiati, vanno tenute ben distinte. L’intervista qualitativa può essere definita come una conversazione provocata dall’intervistatore, rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione, avente finalità di tipo conoscitivo. Interrogare gli esseri umani per ricavarne conoscenza sulla società può essere fatto sia tramite un approccio qualitativo (interviste qualitative) sia tramite un approccio quantitativo (questionari standardizzati). L’intervistatore deve essere pronto a gestire situazioni di diffidenza o sospetto:

–        deve saper ascoltare,

–        deve porre attenzione alla gestualità dell’intervistato,

–        deve avere una specifica sensibilità verso i problemi dell’intervistato.

Lʼesito dellʼ intervista è dato dal legame empatico tra gli interlocutori, lʼintervista è “costruita” dall’ intervistatore e dallʼ intervistato e l’analisi dei dati è centrata sui soggetti, nel senso che l’individuo è osservato nella sua interezza. I risultati sono presentati in una prospettiva di tipo narrativo. Le sintesi e le generalizzazioni spesso assumono la forma di classificazioni e tipologie.

Per comprendere meglio questo approccio conoscitivo è utile riferirci alla ricerca qualitativa di tipo fenomenologico. Lo scopo di un approccio fenomenologico ad una ricerca qualitativa è di descrivere accuratamente le esperienze vissute delle persone e non per creare teorie o modelli del fenomeno in esame.

Visto che la fonte primaria dei dati è “il mondo della vita dell’individuo in esame”, le interviste in profondità sono il modo più valido e autentico per  raccogliere i dati. Inoltre, i temi emergenti sono spesso validati insieme ai partecipanti, perchè il significato che loro attribuiscono a quelle esperienze vissute e centrale negli studi fenomenologici. La fenomenologia è usata per rispondere al quesito di ricerca: che cos’è l’esperienza vissuta dalla persona,  che ha integrato nella sua  vita una malattia?.

L’approccio fenomenologico è fondamentale per scoprire i significati che i partecipanti assegnano al complesso e dinamico processo di integrare la malattia nella loro vita. Parlare di ricerca qualitativa fenomenologica significa ridefinire un campo di indagine e interrogarsi sulla funzione svolta dalla fenomenologia. Ma cos’è la fenomenologia?
La fenomenologia è “lo studio di ciò che appare” letteralmente, è la capacità di mettere tra parentesi ogni oggetto e ridurlo ad un fenomeno, ecco perché essa rappresenta una continua ricerca, una continua elaborazione del pensiero, un’indagine interminabile.

Il suo iniziatore  Edmund Husserl, afferma che la cultura legata a forme di indagine positivistiche e naturalistiche si sia imbattuta in errori teoretici che hanno portato verso un atteggiamento di oggettivizzazione del mondo, della natura, dello stesso uomo.
Le sensazioni, i colori, i suoni, le percezioni tattili hanno definito in modo superficiale l’uomo, la natura, il mondo. La ricerca fenomenologica è ricerca  d’essenza,dell’eidos.
Nel 1929 nelle Meditazioni cartesiane, Husserl afferma che la fenomenologia ha l’obbiettivo di  costituirsi come scienza di essenze, la fenomenologia invita ad avvicinarsi all’autenticità dei fenomeni. Occorre prendere i fenomeni cosi come sono, cosi come essi si danno, cosi come si manifestano, comprendere il senso degli eventi nell’ambito esclusivo dell’esperienza vissuta (dell’erlebnis),  il loro luogo originario. Il fenomeno si offre come dato immediato.

Se i fenomeni devono giungere solo ed esclusivamente nei limiti e nei modi in cui si danno allora è necessario sfrondare gli stessi dalle concrezioni teoriche e dalle ovvietà che dominano la scena, ci riferiamo alle leggi metafisiche e razionalistiche che danno un senso di eccesso al fenomeno.

Intervista al figlio della Principessa sul pisello.

Innanzitutto è giusto chiarire il perchè  del nome di questo paragrafo. In una precedente indagine qualitativa, (pubblicata sulla rivista dell’OPI Taranto, “La parola a noi” N.1 Marzo 2018, dal titolo, La storia della principessa sul pisello.),  con l’utilizzo del Nursing Narrativo come strumento di analisi, la mamma del soggetto intervistato in questa sede, è stata oggetto del nostro interesse investigativo.

In quella ricerca qualitativa, il marito della malata, il suo caregive, definiva la stanza dove era stata collocata la moglie con tutte le attrezzature sanitarie necessarie ad assisterla, “la stanza della principessa sul pisello”. Questo per sottolineare il fatto che sua moglie era veramente assistita e trattata come una principessa. Ed il vezzeggiativo era segno di stima ed affetto che circonda la malata, un modo per sdrammatizzare e vivere con “normalità” la situazione che vive l’intera famiglia. Le sue attenzioni verso la famiglia e quelle a lei rivolte dalle persone che le vivono intorno, sono sempre al cento del processo di vita e del processo assistenziale.

In questa sede si è voluta spostare la nostra lente di ingrandimento, dall’indagine malato / caregive, verso un’altra persona che apparentemente sembra collocata a latere di questo binomio assistenziale, il figlio della coppia. Giovanni, nome di fantasia,  per comprendere meglio come l’evento malattia non sia solo uno stimolo che interessa il malato o il suo caregive. Ma l’evento malattia deve essere considerato come elemento di coinvolgimento globale, di tutto il mondo affettivo e relazionale che la persona in situazioni patologiche vive.

-L’INTERVISTA-

“Giovanni.”

Quando mamma ha iniziato ad avere i primi sintomi, quando sono successe le prime cose, quando non riusciva a salire in macchina o quando scendendo dalla macchina non riusciva a reggersi in piedi, io non mi sono mai allarmato più di tanto perché non mi rendevo conto della malattia e di ciò che sarebbe successo.

La prendevo come una cosa del momento e come una debolezza, un qualcosa che giornalmente le stava succedendo, un giorno si ed uno no, nulla di chissà quanto preoccupante. Con il passare del tempo e con l’avanzare della malattia ho iniziato a rendermi conto ma sempre in maniera un po’ lontana e non perché io volessi stare lontano ma perché c’erano distrazioni, come il lavoro, che non mi facevano soffermare del tutto sulla situazione. Non volevo essere estraneo ai fatti perché comunque riguardavano mia madre e anche mio padre, ma non ero del tutto sicuro, convinto e totalmente dentro la situazione ed infatti, inizialmente, è stato come non aver subito alcun tipo di colpo o reazione negativa. Si,  i medici dicevano mille cose, mamma faceva moltissimi esami, cure, ma io vivevo da solo ed ero staccato dal vivere giornalmente qui a casa con loro, venivo a trovarli ma stavo un ora e andavo via o venivo per pranzo o solo per cena.

Quando poi ho capito che la situazione iniziava  a farsi pesante ho deciso di stare più tempo a casa, non di tornare a vivere con loro ma di interessarmi di più, stare più al loro fianco. Quando mamma è stata trasferita a Roma, mi alternavo tra lavoro e Roma ma anche lì non riuscivo bene a capire ed a rendermi conto della gravità dei fatti, soprattutto delle conseguenze che ci sarebbero state.

Dopo diversi giorni mamma è tornata a casa, ed io ho deciso di tornare a vivere con loro; non lavoravo più ed è stato lì che, avendo ogni giorno la situazione davanti agli occhi, ho capito davvero a cosa stavamo andando incontro; cosa stava succedendo e cosa altro sarebbe potuto succedere. Non era facile per me alzarmi la mattina e trovare sempre qualcuno a casa, a tutte le ore OSS ed infermieri, non potevo più girare in mutande, sentivo toccata la nostra privacy nonostante sapessi che erano tutti lì per il bene di mia madre.

Da lì le prime settimane, il primo mese, avevo angoscia, rimorsi, ansia, tanta, infatti ho avuto seri problemi di attacchi di panico, mi sono fatto seguire e non mi vergogno a dirlo. Questo non era legato alla perdita del lavoro ma proprio perché non ero pronto a vivere la situazione a casa nel pieno, vedere tutto ciò che stava succedendo. Mamma era tornata da Roma diversa da come era partita, senza voce e da quel momento in poi per sempre a letto e anche se il “grosso” era passato perché il peggio si era verificato in quell’ospedale con l’insufficienza respiratoria dove ha rischiato di morire, io non avendo veramente vissuto al momento giusto lo spavento ho iniziato lì ad accusare i sintomi che ti ho detto prima. Stavo male, non volevo affrontare nulla, sempre giù di morale, nervoso, ansia. Come ti dicevo mi sono fatto seguire, e in quegli incontri mi è stato detto che la mia situazione era dettata dal fatto che l’esordio dei sintomi della malattia di mia madre, le complicanze e i vari spostamenti nei tanti ospedali, non mi avevano portato nulla ed in quel momento quindi era normale che io dovessi esplodere. Le mie paure sono arrivate in quel momento, quando tutto sembrava essere più calmo e dovevamo abituarci alla nostra nuova vita. Sono una persona dai facili allarmismi, sia per questioni mie che degli altri, andavo da mia madre “Mamma non mi sento bene” e lei che mi diceva “Non hai niente, non ti preoccupare, è solo un po’ d’ansia, tu sei così.”

Ti dirò, ho superato quel momento soprattutto grazie a lei, anche se è assurdo dire che lei ha aiutato me. Piano, i mesi son passati e tra varie distrazioni, un nuovo lavoro, gli amici, con le mie ansie è andata sempre meglio, mi facevo coraggio e forza, affrontavo le paure di petto dicendo “Basta! Così non si può vivere, a casa la situazione è questa, io devo riprendermi perché non sono più me stesso.”

Davo sempre più una mano a papà, da lì ho capito sempre meglio il funzionamento di tutte le situazioni di mamma, aspirare i muchi dalla tracheostomia cosa che all’inizio mi faceva paura, il fatto di andare ad agire dentro di lei con quel tubicino, era per me strano.”

“Quindi anche tu, come tuo padre, ti occupi di lei?”

“Si si, senza problemi. Le do da mangiare, diciamo, o meglio le preparo il cibo collegando le sacche tramite la PEG. Certo, me lo hanno insegnato perché da solo sarebbe stato impossibile; con coraggio ci ho tenuto davvero, “Voglio capire come funziona perché lo voglio e devo farlo anche io, perché se qui a casa non c’è nessuno e sono solo come devo fare? Non posso entrare nel panico.”, infatti adesso per me è tutto più semplice.”

“Il vostro rapporto, madre e figlio, è cambiato?”

No, cambiato no, è sempre stato ed è veramente lo stesso. Io sono uno che le paranoie non le vuole sentire anche quando sbaglio ed è assurdo, quindi una mamma giustamente te le fa e lei continua a farle. Viene a sapere che la mia camera è in disordine o che stanno in giro cose fuori posto che lei non può sistemare e si arrabbia anche per questo, non potendo starci più dietro dice:

“Perché avete fatto fare tutto a papà?”

– e quindi: “Metti a posto, fai questo, fai quello!”.

Certo sono un ribelle, nel senso “si, si, dopo lo faccio!”, poi però ci penso seriamente e mi dico: “Cavolo! Lo devo fare davvero, e subito!”.

Quindi ti dico di no, che non è cambiato nulla tra noi, anzi mi confido e mi apro molto più con lei adesso, prima ero più chiuso e non le raccontavo quasi niente. Tenevo per me tutto mentre adesso anche per il fatto che i miei amici vengono a trovarla spesso, le situazioni tra me e loro fuori di casa le viene a sapere o insieme gliele raccontiamo; ti dirò questo da un lato è molto bello perché ci sono miei amici che vengono a casa, si siedono con lei e parlano tanto. Per il resto niente, adesso ho capito che è così e basta, punto. Poi, mi fa sicuramente paura pensare se più in la dovesse peggiorare il tutto, però grazie a questa situazione diciamo che parto prevenuto ed è come se so di poter affrontare meglio e con prontezza qualsiasi altra cosa, ciò che abbiamo già vissuto è stato abbastanza grave a Roma con la crisi respiratoria e le varie complicazioni; quindi penso proprio di si, credo adesso di saper affrontare meglio tutto. Sono sempre stato del parere che mamma non si dovesse e potesse mai ammalare, che non le sarebbe mai potuto succedere niente, mi faceva paura pensarlo ed è purtroppo successo. Ogni volta che mi chiedono come sta mia madre rispondo sempre che la situazione è stabile e che sta bene, questo per farti capire la mia positività, non ho mai detto che sta male e mai mi sono lamentato, neanche quando è stata male davvero, a Roma, mai. Non mi piace e non mi è piaciuto essere negativo neanche quando probabilmente un po’ avrei dovuto.”

“tua madre è una forza della natura!!”

“Appunto, già. Ne sono consapevole e l’ho scoperto con la sua malattia. Io mettendomi nei suoi panni non credo che mentalmente ce la farei, non sarei riuscito ad andare avanti, al solo pensiero di non potermi muovere, essere a letto a vita, boh! Lei invece no. Certo, avrà sicuramente i suoi momenti NO, momenti in cui non dice nulla per non addossare agli altri, a noi, le sue tristezze, credo che li sappia ben nascondere i suoi diversi stati d’animo. Non credo che non abbia mai pensato almeno una volta di non voler più stare a letto, di non voler più “combattere”. All’inizio ho scoperto un po’ di volte che piangeva ma sempre con grande compostezza, sicuramente con mio padre si è aperta e si apre di più rispetto a noi, ma comunque ho scoperto, ti ripeto, che è fortissima! Forte! Forte! Rendersi conto a 50 anni di età, di avere questo tipo di malattia, ti cambia tutto. I miei genitori che prima uscivano sempre in comitiva, gite fuori paese e adesso, non poter fare più niente, ti spezza tutto a mio parere ma lei bene o male, anzi cosa dico, molto bene, l’ha presa alla grande!”

“Il mio pensiero però va anche a tuo padre Franco, “costretto” a non fare più nulla per amore di sua moglie.”

“Infatti si, inizialmente molto. Però anche lui adesso, con il passare del tempo, ha capito che può fidarsi di noi, di me e di mio fratello e che pur stando soli, a mamma non può succedere niente. Essendo stabile la situazione della malattia, papà pian piano ha ripreso ad andare a trovare il suo amico in Abruzzo, va a cena con gli amici, cosa che non faceva da una vita, all’inizio rifiutava ogni tipo di invito. Adesso tutto si è stabilizzato per tutti e dirò sempre che fino a quando sarà così per me va benissimo. Se mi dicessero: “Da ora a 100 anni così!” io dico: “OK, ALLA GRANDE”, ma perché ormai la nostra routine è questa.

La mia è una mamma presente, ci sgrida, si arrabbia, ci da i soldi, “Mi serve questo mamma!” – “Vai a prenderli, conosci il posto.”-  è presente in tutto e per tutto come sempre, da sempre, nonostante sia in un letto, immobile senza voce, attaccata ad un respiratore e facendosi capire dal labiale, dalle sue espressioni e dai suoi occhi. Ti fa passare il pensiero, che vabbè per noi non c’è più da tempo perché è la normalità, quel pensiero di lei lì, perché lei HA CIO’ CHE HA, non può alzarsi da quel letto ma questa idea direi atroce te la fa passare. È come se mamma stesse giù in tavernetta con me o sopra in cucina a preparare e noi che le giriamo intorno, è come se non abbia mai smesso di sgridarci e chiamarci come faceva una volta, è mondiale. Da una parte tutto questo è troppo bello, sapendo cosa ha passato e vederla adesso, impossibile non dire: “Cavolo! Tanto di cappello!”. Ci parli e ti viene di pensare “Ma è sicuro che hai tutto ciò?”; lo dico anche per il suo aspetto fisico, in carne rispetto a prima, bella piena dico io, curata. Va benissimo così davvero.

Rispetto a mio fratello sono stato più fragile e pensavo onestamente che avvenisse il contrario; Claudio è stato molto più composto e non so se maschera ed ha mascherato, ma non penso perché ha sempre ragionato prima di dover fare e pensare qualcosa. Quando a Roma mamma ebbe la crisi, mio padre era lì con lei, era il 1°Gennaio, un capodanno che non avrei voluto festeggiare tra amici e cenone di fine d’anno, ma ci sono andato lo stesso. Il giorno dopo mentre dormivo arriva il messaggio di una mia cugina: “Mamma sta male”, e quando leggi un messaggio del genere quando già la situazione è delicata per me voleva dire che mia madre stava malissimo. C’era la neve e a piedi, in pigiama sono andato a casa di mia zia, in lacrime, capivo ben poco, ebbi anche la febbre e tanto caos dentro di me; questo per farti capire che invece a Claudio nulla di tutto questo, il silenzio. Ma chissà cosa avesse dentro.”

“Nella tua vita è cambiato il modo di comportarti?”

“Adesso posso dirti che da quel giorno ho capito quasi tutto della mia vita, ho capito come è giusto che debba affrontare certe situazioni senza esagerare, mi rendo conto di aver affrontato quell’episodio un po’ da bambino, incapace di affrontare un problema inaspettato, nonostante comunque fossi davvero più piccolo ed immaturo. Raccontandoti queste cose, si mi rendo conto di essere cambiato, vedo in maniera  diverse tante situazioni, da quella di mia madre, a tante altre, e so di saperle affrontare in maniera diversa. Adesso mi sento più tranquillo. Prendo la mia vita molto alla “leggera”, anche sul posto di lavoro se qualcosa va per il verso sbagliato sono convinto di poter sempre trovare una soluzione. Sono sempre stato così, quel periodo più intenso della mia vita mi ha cambiato buttandomi giù e facendomi perdere ogni mia sicurezza, “Non ce la farò mai più a fare niente nella mia vita.” dicevo, come se nella mia mente ci fosse solo quella convinzione, del nulla, ma adesso posso dire di essere tornato me stesso, anche più positivo di prima. Affronto le cose con simpatia, allegria, la persona che sono e voglio essere, senza paure; tutto questo lo devo a ciò che è successo alla mia famiglia, a mia madre e lo dico perché ne sono convinto. Certo, se non ci fosse stata la scoperta di questa malattia per lei, non sarei qui a parlartene e non avrei mai avuto quel periodo di sbandamento, ma visto che c’è stato ti dico che mi ha reso più uomo, più adulto.

Per il resto, tutto alla grande!” – con un immenso sorriso, ha concluso così.

[Il precedente racconto è stato scritto e realizzato al termine di uno studio sperimentale della durata di 6 mesi. L’elaborato finale è frutto delle informazioni ricavate nei vari incontri].

RISULTATI

Lo scopo del mio racconto è stato quello di far conoscere ciò che forse nessuno ha mai il coraggio di dire ed affrontare davvero. Io mi sento più ricco grazie alla famiglia che ha collaborato con me ed ha reso possibile la realizzazione di questo studio. Una moglie, un marito ed un figlio che hanno insieme un grande potere: far capire qual è lo scopo di ogni essere umano in questa vita. Senza il dolore e senza alcuna sofferenza nessuno è in grado di afferrare e scoprire la felicità che alla maggior parte di noi sembra sempre tanto nascosta ed irraggiungibile.

Io credo che la loro forza stia proprio nel fatto di trasformare il dolore in insegnamento per gli altri, io nei loro occhi  ho visto una naturalezza rara ed insolita. La mamma  è una forza della natura, una donna che non si è mai arresa e che sono convinta mai farà, il marito  vede in sua moglie l’unica ragione per cui vive ed il suo nome apre la porta di ogni suo discorso, ed infine Giovanni il loro primogenito, maturato e fatto uomo per le tante difficoltà superate con grande coraggio ed orgoglio. Il tempo che ho trascorso nella loro famiglia mi ha mostrato come, nonostante tutto, la mamma sia sempre presente e disponibile per tutti. È una moglie, una madre, una sorella, una figlia, una zia ed un’amica eccellente perché ricopre ognuno di questi ruoli mettendoci cura, cuore ed attenzioni.

CONCLUSIONI

Questo studio sperimentale nasce da una doppia constatazione: l’importanza del rapporto malato/caregiver e membri del nucleo famigliare, della povertà di testimonianze a favore di questo. È emerso quanto queste due figure siano strettamente connesse tra loro, l’una non esisterebbe senza l’altra. Ad oggi, gli studi pubblicati mettono in evidenza il forte impatto e le difficoltà che questi si ritrovano ad affrontare dall’esordio della malattia, soprattutto per quanto riguarda la sfera pratico-assistenziale. Tutto questo, accompagnato da valori quali rispetto, fiducia, amore, altruismo e gratitudine semplifica le difficoltà assistenziali da parte del caregiver offrendo ulteriore beneficio al malato. Dal mio lavoro emerge un altro dettaglio significativo, con l’arrivo in casa di una malattia, tutta la famiglia è chiamata a reagire. L’esperienza e la realtà della malattia, come tutte le realtà che l’uomo incontra nella sua vita, sono una sfida. L’essere umano ha coscienza di sé e ha la libertà di scegliere, prende posizioni di fronte a tutto quello che gli accade arricchendosi e fortificandosi. Magari può capitare che quella situazione sia pesante, sia di sofferenza, ma non ci sono delle situazioni in cui l’uomo non riesca a saltarci fuori con la sua umanità, a sviluppare quella ricchezza di amore, di solidarietà e di vicinanza all’altro.

Certo, il malato è al centro, oggetto di buone cure e ancor prima lui stesso soggetto della sua vita e della sua cura; ma proprio perché questo si realizzi è necessario che chi gli sta vicino come uomo, marito, figlio o come professionista dell’aqssistenza, sappia per esperienza diretta e continuativa che cosa significhi essere persona, comportarsi ed essere trattato come tale. Non si può aiutare veramente qualcuno se  contemporaneamente non ci si prende cura di sé stessi e se non si è costantemente aiutati ad aiutare. Per questo elementare, ma tutt’altro che scontato motivo, penso che coloro che assistono debbano verificare che gli stessi curanti si prendano cura gli uni degli altri per non bruciarsi.

A questo riguardo gioca un ruolo determinante la figura dello psicologo, utile a maturare sicurezze e positività, come è successo e ha raccontato nella sua storia Giovanni. Leggendo la sua intervista è facile mettersi nei panni di un figlio che scopre la malattia della madre ed essendo totalmente impreparato ad affrontarla, specie se questo si è definito ansioso ed immaturo. La sua testimonianza regala un grande esempio a chi come lui vive tale situazione e non ne vede via di uscita, ma anche a chi non conosce da vicino questa realtà e sa solo vederci del negativo. Giovanni  ringrazia la malattia della mamma, le difficoltà che lui e tutta la sua famiglia hanno dovuto affrontare, si definisce adesso un UOMO ed è convinto che senza tutto ciò, forse mai lo sarebbe diventato.

L’obbiettivo di questo lavoro è stato quello di esplorare l’esperienza vissuta, in particolare da un punto di vista emotivo e fenomenologico, in un paziente affetto da patologia invalidante, dal suo caregiver e dai suoi figli. Il loro raccontare e il mio saper ascoltare è stato produttivo in entrambi i casi. Nei primi è stato motivo di sfogo e liberazione e un valido strumento per aiutare a ricercare parole per dire e riconoscere il proprio vissuto, per costruire nuove connessioni possibili tra malattia e vita quotidiana, trame di senso per riuscire a rivedersi, ricomprendersi e riprogettarsi in una rinnovata versione della propria storia e della propria identità. Si tratta di ricostruire il proprio sapere e la storia personale per giungere a nuove consapevolezze, a rinnovare interpretazioni e comprensioni dell’esperienza che si sta vivendo.

Per me ricercatore è stato invece motivo di crescita professionale e arricchimento interiore, un’opportunità per rendere più completo l’accertamento dei problemi assistenziali della persona, attingendo ampiamente ai vissuti, alle emozioni, alle aspettative ed ai desideri di tutta la famiglia. La possibilità offerta al paziente e alla sua famiglia di narrare la sua storia aiuta nell’espressione dei propri stati emotivi e produce positivi vissuti di ascolto e condivisione rafforzando il rapporto infermiere-utente.

La parte iniziale è prettamente teorica mentre la parte finale vede come protagonisti il malato, il caregiver, il racconto di un figlio e per ultime le mie parole. L’influenza che questo lavoro ha avuto su di me è stata di grande rilevanza perché la figura dell’infermiere, ai miei occhi, ha acquisito un valore aggiunto. Essere un infermiere vuol dire saper fare una terapia, una medicazione ed un letto ma anche e soprattutto saper essere.

BIBLIOGRAFIA

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  • Good B.J., “Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente” – Einaudi, 1999

 

Redazione Nurse Times

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