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La dott.ssa Carannante presenta la tesi sul trattamento e prevenzione delle infezione del sito chirurgico

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Riceviamo la tesi della dott.ssa  Carannante Roberta.

ABSTRACT

Per infezione del sito chirurgico (SSI, surgical site infection) si intende un’infezione che si verifica entro 30 giorni dall’intervento chirurgico, che può interessare il tessuto incisionale o profondo nel sito dell’intervento.

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L’incidenza delle SSI, infatti, varia in maniera considerevole in funzione non soltanto del tipo di intervento, ma anche dell’ospedale, del paziente e del chirurgo.
Secondo il Center for Desease Control National Nosocomial Infection Surveillance (CDC NNIS) le infezioni del sito chirurgico costituiscono il 14,16% di tutte le infezioni osservate nei pazienti ospedalizzati ed il 38% nei pazienti chirurgici, occupando il terzo posto di tutte le infezioni per ordine di frequenza.

Negli Stati Uniti, le SSI si verificano nel 2-5% dei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici e quindi, valutando che ammonta all’incirca a 15 milioni il numero di interventi/anno, si stima che le SSI risultano pari a 300.000-500.000 casi per anno (CDC, 2017).

In Europa, alcuni dati epidemiologici confermano che l’incidenza delle SSI può raggiungere valori anche del 20%, ma che tale incidenza dipende molto dal tipo di chirurgia, dai criteri di sorveglianza utilizzati e dalla qualità dei dati raccolti (Leaper D.J. et al., 2006). I dati europei evidenziano che l’aumentato numero di procedure chirurgiche mininvasive ha ridotto il numero di SSI. Possibili spiegazioni di questa minore incidenza di SSI a seguito di procedure mininvasive vanno ricercate nella minore dimensione dell’incisione cutanea, nella più precoce mobilizzazione del paziente, nella riduzione del dolore post-operatorio, nella preservazione delle funzioni immunitarie.

L’impatto delle infezioni del sito chirurgico sulle risorse sanitarie è notevole e rappresenta un onere importante. Malgrado l’implementazione di numerose strategie di controllo delle infezioni e della pratica chirurgica, le SSI rappresentano, ancora oggi, una causa di morbilità e, spesso, anche di mortalità. Infatti, per i pazienti affetti da tali complicanze è più frequentemente necessaria la ri-ospedalizzazione o il ricovero in Terapia Intensiva (TI) ed il rischio di mortalità è superiore rispetto a quello dei pazienti senza tali infezioni.

È necessario comprendere che le infezioni ospedaliere non sono una conseguenza “necessaria” dell’ospedalizzazione e che sistemi di sorveglianza e di intervento, accuratamente organizzati, possono ridurre anche notevolmente l’insorgenza di questo fenomeno. Tale considerazione giustifica l’istituzione di sistemi di sorveglianza prima ancora delle ragioni economiche, normative ed organizzative.

Anche nell’ambito delle strategie da adottare per la prevenzione delle SSI, la sorveglianza e la comunicazione dei relativi risultati ai chirurghi si è rivelata efficace nel ridurre il rischio di SSI.
La sorveglianza delle infezioni nosocomiali viene condotta mediante la raccolta dei dati, la loro analisi ed interpretazione, l’implementazione delle azioni preventive e la valutazione degli effetti di tali interventi.

La validità di un sistema di sorveglianza è definita da alcune caratteristiche, quali:

  • semplicità, necessaria per minimizzare i costi e i tempi
  • flessibilità, per effettuare cambiamenti quando necessario
  • accettabilità, per incrementare il livello di partecipazione
  • utilizzo di metodologie standard; sensibilità e specificità dei dati raccolti.

I sistemi di sorveglianza, preposti allo scopo di prevenire e tenere sotto controllo il fenomeno delle infezioni ospedaliere, possono essere distinti in tre categorie:

  • sistemi orientati ai degenti
  • sorveglianza basata sui microrganismi
  • sistemi rivolti all’ambiente.

L’analisi dei dati epidemiologici relativi alle SSI, e dell’impatto delle infezioni del sito chirurgico, che definiscono la complessità della ferita, è fondamentale per poter comprendere l’importanza dell’impiego e la ricerca di tecnologie sempre più avanzate che mirano a diminuire le complicanze delle ferite chirurgiche, come la terapia a pressione negativa.
Questo elaborato, dunque, oltre ad offrire al lettore una panoramica generale sulle ferite chirurgiche, il loro processo fisiologico di guarigione e le varie complicanze alle quali può andare in contro, pone la sua particolare attenzione su un approccio terapeutico che, negli ultimi anni si sta imponendo nel trattamento delle ferite chirurgiche complesse, ovvero: la terapia a pressione negativa.

Nei capitoli a seguire, infatti, viene ampiamente descritto il suo meccanismo di funzionamento, e per quale tipo di lesioni è indicato questo tipo di terapia.

Al fine di dare un contributo alle evidenze in merito alla reale efficacia, o meno, di questo trattamento, è stata svolta una revisione sistematica della letteratura di sette studi clinici controllati randomizzati (RCT), i quali, mediante il campionamento di due gruppi (uno di studio ed uno di controllo), hanno effettuato un confronto tra il trattamento delle ferite chirurgiche con medicazioni tradizionali e l’utilizzo di dispositivi per la terapia a pressione negativa.
L’analisi dei dati raccolti sembrerebbe confermare l’efficacia della terapia a pressione negativa nel prevenire le infezioni del sito chirurgico in pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, in ambito della chirurgia addominale e vascolare, in regime di elezione.

Nei capitoli successivi particolare attenzione viene poi posta, in quanto competenza infermieristica, alla procedura di medicazione della ferita sottoposta ad NPWT (Negative Pressure Wound Therapy) con ampio approfondimento sulla fase di preparazione del letto della lesione (detersione e debridement), processo fondamentale per favorire il successo del trattamento.
Come ben noto, però, le competenze infermieristiche non si limitano a garantire il solo esito positivo della procedura di medicazione, ma si estendono all’assistenza al paziente nella sua globalità, al fine di garantire il mantenimento di una qualità di vita ottimale al paziente portatore di dispositivo per la terapia a pressione negativa.

Nell’ultimo paragrafo, infatti, è definito il concetto di qualità della vita, da sempre presenta nella pratica della professione infermieristica.

Sono, dunque, descritte le componenti chiave che garantiscono una buona qualità di vita, ed analizzate le aree delle dimensioni umane che possono andare in contro ad alterazioni in pazienti portatori di terapia a pressione negativa. Questo risulta essere un concetto di fondamentale importanza poiché potrebbe spingere il soggetto ad un continuo e sempre più persistente isolamento sociale, che potrebbe scaturire in quadri depressivi ben più complessi.
Con questa breve parentesi sull’aspetto psicologico del paziente sottoposto a terapia a pressione negativa si intende sottolineare, ancora una volta, che l’infermiere è il professionista sanitario che prende in carico il paziente nella sua interezza, non limitandosi al solo aspetto patologico che richiede assistenza, ma estendendo il proprio interesse ai diversi aspetti che compongono la persona.

Carannante Roberta

Allegato

Tesi di laurea

Redazione Nurse Times

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