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Il ruolo dell’infermiere counselor nella cura dello scompenso cardiaco

Antonio Di Fraia, neo laureato in Infermieristica ci ha chiesto di poter condividere coi nostri lettori la sua tesi di laurea

Antonio Di Fraia, neo laureato in Infermieristica ci ha chiesto di poter condividere coi nostri lettori la sua tesi di laurea. Lo facciamo volentieri, pubblicando di seguito l’introduzione e allegando l’intero testo da scaricare in formato Pdf.

Lo scompenso cardiaco è una condizione clinica caratterizzata dall’incapacità del cuore di pompare una quantità di sangue adeguata alle esigenze dell’organismo. Questa patologia viene definita l’epidemia del terzo millennio. Dopo i 65 anni lo scompenso cardiaco rappresenta la prima causa di ospedalizzazione e si stima che circa il 30-40% dei pazienti ospedalizzati sia soggetto a un successivo ricovero entro 90 giorni dalla dimissione a causa di riacutizzazioni dovute alla scarsa aderenza alle prescrizioni terapeutiche.

In Italia ci sono circa 600.000 persone affette da scompenso cardiaco e si stima che la frequenza raddoppi a ogni decade di età. I principali fattori scatenanti sono l’aumento della vita media e la mancata aderenza alla terapia: da un lato abbiamo l’aumento della sopravvivenza e quindi un invecchiamento generale della popolazione, dall’altro abbiamo pazienti che non seguono correttamente quanto loro prescritto.

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L’infermiere counselor, in questo contesto, si occupa di educare il paziente alla patologia, spiegando l’importanza della terapia farmacologica, delle prescrizioni dietetiche e del monitoraggio periodico. L’infermiere, inoltre, istruisce il paziente circa la sintomatologia tipica della riacutizzazione della patologia e sul corretto stile di vita da seguire per evitare un aggravamento della sindrome.

Il profilo professionale vede l’educazione sanitaria come fondamentale attività infermieristica e la Legge 42 del 1999 lo ribadisce. È un’assistenza multidisciplinare incentrata sull’ammalato, il cui scopo è quello di far comprendere la patologia al paziente e ai suoi familiari, in modo da aumentare la collaborazione con i sanitari e migliorare la propria qualità di vita. L’aiuto che fornisce il team multidisciplinare non è solamente quello di dire al paziente cosa fare, ma è quello di spiegare al paziente “perché si deve fare”.

È importante rendere partecipe il paziente, che diventa protagonista della propria assistenza, valutando i miglioramenti e i peggioramenti della patologia. Bisogna arrivare all’autogestione della sindrome da parte del paziente, capace di riconoscere precocemente i sintomi di riacutizzazione e di agire in modo da limitarli. L’infermiere utilizza le sue capacità relazionali per entrare in empatia col paziente, andando a creare un forte legame di fiducia che porta il paziente ad aprirsi totalmente col counselor, confidando dubbi e preoccupazioni, ansie e timori.

In questo modo il paziente avrà sempre una figura su cui contare. In termini di morbilità e qualità di vita, questa gestione del paziente può portare degli ottimi risultati terapeutici, pari o anche superiori a quelli ottenibili con i farmaci.

 

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