I medici di base nell’emergenza, un anello debole

I medici di base sembrerebbero essere un anello debole nella gestione dell’emergenza e nel tentativo di rinforzare la sanità sul territorio. La categoria è stata chiamata a fare i test antigenici rapidi ai loro pazienti sospetti e ai relativi contatti stretti asintomatici. La retribuzione aggiuntiva è dai 12 ai 18 euro a tampone.

Dal 4 novembre il commissario straordinario Domenico Arcuri ha iniziato la distribuzione di 50 mila kit al giorno e oltre 3 milioni di pezzi a settimana di mascherine, visiere, guanti e tute. I medici che non fanno i test possono essere sottoposti a procedimento disciplinare.

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L’accordo, però, è sottoscritto solo dalla Fimmg che rappresenta il 63% dei medici di famiglia, e pure fra questi ci sono contrari. Il problema più evidenziato è l’apparente impossibilità di far entrare i possibili contagiati negli studi medici che, spesso, sono in condomini. Anche se vi è la possibilità per i Comuni di installare zone apposite, una parte della categoria continua fermamente a opporsi.

Sono comprensibili le paure (la maggior parte di loro ha un’età compresa fra i 50 e 60 anni) – scrivono Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul corriere.it, – e sono condivisibili i timori per il carico di responsabilità che nessuno ha definito, ma ogni medico il giorno della laurea giura «di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità». Negli ospedali, abbiamo visto, nessuno è stato tanto lì a discutere. Quello che sappiamo è che, anche per la semplice richiesta di esecuzione del tampone tradizionale, da marzo a ottobre a Milano il 39% dei casi sospetti Covid ha dovuto arrangiarsi da soli, mentre quelli segnalati dai medici di base sono stati il 61%

. Fra questi c’è chi si è tirato il collo (l’8% ha segnalato oltre 200 casi) e chi ha fatto il meno possibile (il 20% si è fermato a 50 casi).

La denuncia della Gabanelli, però, non si ferma qui. La giornalista prova a spiegare perché i medici di base, nonostante tutto, vengano considerati una “categoria di serie B”. Le ragioni sarebbero tre.

1) La borsa di studio dei neolaureati che si iscrivono al corso di formazione triennale per diventare medici di famiglia è di 11 mila euro l’anno, sono soggetti a Irpef e con contributi a carico; mentre quella per chi sceglie il corso di specializzazione è di 26 mila, contributi inclusi e senza Irpef. E’ evidente che il giovane laureato punterà alla specialità, anche se deve pagare 2.400 euro l’anno in media di retta universitaria. 2) Ne vengono formati sempre meno di quelli che servono: lo scorso anno 2.864 medici di medicina generale sono andati in pensione, ma sono solo 1.765 le borse di studio previste; nel 2020 scendono a 1.032 per sostituire 3.493 che quest’anno smettono l’attività. 3) Il finanziamento per i corsi di formazione triennale è di 38 milioni l’anno, la stessa cifra del 1989.

Fonte e Foto: corriere.it

Cristiana Toscano

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