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Coronavirus, minor rischio di infezione per persone affette da Hiv in trattamento antiretrovirale con inibitori della proteasi

Questo l’incoraggiante risultato di uno studio francese, che tuttavia necessita di approfondimenti.

Al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (ECCMID) di Lisbona (23-26 aprile) sarà presentato uno studio preliminare secondo il quale le persone affette da Hiv in trattamento antiretrovirale (ART) con inibitori della proteasi (PI) possono avere un minor rischio di infezione da Covid-19.

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Nonostante questi importanti risultati, gli autori del lavoro, guidati da Steve Nguala (Centro ospedaliero intercomunale di Villeneuve-Saint-Georges e del General Hospital di Melun, in Francia), sottolineano che si tratta di un piccolo studio osservazionale precoce e che non dovrebbe essere considerato una prova conclusiva del fatto che l’uso a lungo termine degli inibitori della proteasi proteggerà dal coronavirus le persone che convivono con l’Hiv.

Nello specifico, queste ultime sono a maggior rischio di infezioni comunitarie o opportunistiche, ma non sembrano essere a maggior rischio di Covid in forma grave, probabilmente a causa del loro uso di ART. La terapia antiretrovirale è stata proposta come fattore protettivo contro la sindrome respiratoria acuta grave (Sars) nel 2003, ma il piccolo numero di casi non ha permesso di trarre conclusioni.

Gli inibitori della proteasi, una classe di farmaci antivirali usati per trattare l’Hiv, agiscono bloccando un enzima critico (chiamato proteasi) di cui i virus hanno bisogno per replicarsi e infettare più cellule. Sebbene non sia stato dimostrato che curino le infezioni da Covid-19 nella popolazione generale, la loro efficacia nel prevenire il virus è sconosciuta.

Per esplorare ulteriormente questo aspetto, Nguala e colleghi hanno condotto uno studio di coorte multicentrico in sei ospedali dell’Ile-de-France per valutare l’impatto dell’uso a lungo termine di PI nei pazienti con Hiv sull’incidenza del coronavirus. Tra il 1° maggio 2020 e il 31 maggio 2021 hanno arruolato 169 persone con Hiv trattate con ART con PI e 338 pazienti con Hiv che hanno assunto ART senza PI. A nessuno dei partecipanti era stato precedentemente diagnosticato il Covid e l’età media era di 50 anni (48% femmine e 52% maschi).

Tra i partecipanti in trattamento con PI, oltre tre quarti stavano assumendo darunavir/ritonavir (131/169; 77%), circa l’8% stava assumendo atazanavir/ritonavir (14/169) e il resto è stato trattato con altri PI (24/ 169, ossia il 14%). In media, assumevano PI da almeno un anno. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a regolari valutazioni cliniche e screening per Covid-19 durante il consueto follow-up dell’Hiv (ogni sei mesi). La modellazione è stata eseguita per identificare potenziali fattori di rischio associati al virus.

In un anno di follow-up (con alcuni pazienti persi al follow-up in entrambi i gruppi) il 12% (18/153) dei partecipanti che assumevano PI e il 22% (61/283) di quelli nel gruppo non PI hanno contratto il coronavirus accertato da sierologia Sars-Cov-2 positiva a fine studio e quattro pazienti nel gruppo non PI sono stati ricoverati in ospedale con Covid-19.

Dopo aver aggiustato i fattori legati all’aumento del rischio di Covid, tra cui sesso, età, numero di cellule CD4, numero di persone che vivono nella famiglia, contatto con un caso positivo al Covid, i ricercatori hanno scoperto che i pazienti nel gruppo degli inibitori della proteasi avevano il 70% in meno di probabilità di essere infettati dal coronavirus rispetto a quelli del gruppo non PI.

I pazienti di entrambi i gruppi che erano stati in contatto con persone affette da Covid-19 nei 14 giorni precedenti la loro consultazione avevano il doppio delle probabilità di risultare positivi, mentre quelli che vivevano nella stessa famiglia con almeno altre tre persone avevano il triplo delle probabilità di risultare positivi. E coloro che avevano perso il senso del gusto avevano sei volte più probabilità di essere diagnosticati con Covid-19.

“I farmaci inibitori della proteasi hanno una lunga storia di utilizzo, un buon profilo di sicurezza e sono generalmente ben tollerati – afferma il dottor Nguala –. Attaccando il virus prima che abbia la possibilità di moltiplicarsi, offrono potenzialmente un’opportunità per prevenire la diffusione di infezioni e la mutazione di future varianti. La minore incidenza di Covid-19 tra i pazienti trattati con un regime a base di inibitori della proteasi solleva la questione di un effetto preventivo che dovrebbe essere ulteriormente studiato. Per confermare questi risultati preliminari sono necessari ulteriori studi con un numero maggiore di pazienti e in studi randomizzati su persone senza Hiv. La sfida sarà produrre dati solidi in un periodo limitato che possano ispirare nuove strategie di prevenzione o terapeutiche”.

Redazione Nurse Times

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