Aspirina a basso dosaggio, cambio di linea dagli Usa: meglio evitarla dopo i 60 anni

La task force dei Servizi di Prevenzione americani alimenta il dibattito sull’uso della cosiddetta aspirinetta per prevenire infarti e ictus.

Non smette di far discutere l’impiego dell’aspirina a basso dosaggio, detta anche l’aspirinetta o baby aspirina, in prevenzione primaria per i soggetti a rischio cardiovascolare, quindi potenzialmente più esposti a infarto o ictus rispetto alla popolazione generale. Ad aggiungere benzina sul fuoco le ipotesi della task force dei Servizi di Prevenzione americani, secondo cui tra i 40 e i 59 anni bisogna ponderare bene con il curante se iniziare il trattamento con il farmaco a basse dosi, espressamente per la prevenzione cardiovascolare, in questi soggetti. E come se non bastasse, dice che sarebbe meglio non impiegare l’acido acetilsalicilico in questa specifica popolazione sopra i 60 anni.

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Il motivo? I rischi di emorragie e comunque di effetti collaterali seri in chi viene trattato cronicamente sarebbero superiori ai potenziali benefici in termini preventivi per quanto riguarda infarti, ictus e altri problemi vascolari. Da noi gli esperti raccomandano soprattutto di avere un atteggiamento che deve partire dalle condizioni e dai rischi di ogni persona.

Lo ricorda Massimo Volpe, ordinario di Cardiologia all’Università Sapienza di Roma e presidente della Società italiana di prevenzione cardiovascolare (Siprec): “La vera chiave per una corretta prescrizione dell’acido acetilsalicilico a basso dosaggio in questi soggetti sta nella personalizzazione dell’approccio occorre sempre valutare il profilo aterotrombotico di ogni persona, a prescindere dall’età. Se abbiamo una persona ipertesa, magari anche con colesterolo alto, con casi di infarto ed ictus in famiglia e che magari mostra ad un esame doppler qualche placca sulla parete arteriosa, la prescrizione dell’acido acetilsalicilico in prevenzione appare fondamentale, anche se magari ha superato i 60 anni. Ovviamente invece se sono presenti rischi accentuati di emorragie, magari per la presenza di un’ulcera o magari di emorroidi che possono sanguinare, si può anche soprassedere”.

Puntare tutto sull’età come criterio di selezione delle persone da trattare insomma, da questa parte dell’Oceano non è considerato ottimale, anche se più crescono gli anni più occorre cautela. Il criterio generale, secondo Volpe, è di non andare oltre i 70 anni per iniziare una prescrizione, visto che il rischio tende ad essere globalmente superiore al beneficio atteso, ma anche il dato anagrafico a volte può “fare a pugni” con la situazione biologica.

“Ci sono 70enni in perfetta forma che possono presentare tre o quattro fattori di rischio cardiovascolare, ed anche in questa popolazione i vantaggi del trattamento possono essere superiori ai possibili eventi avversi – continua Volpe –. Per questo da noi si punta sulla necessità di personalizzare le prescrizioni con un corretto rapporto medico-paziente c’è solo una certezza che va tenuta presente. Nei diabetici l’acido acetilsalicico è raccomandato dalle linee guida della Società Europea di Cardiologia”.

I comportamenti in Italia e Usa, insomma, possono differire, anche se la valutazione che giunge dagli stati Uniti deve far riflettere, pur se nelle diversità che possono caratterizzare gli atteggiamenti prescrittivi. Come ricorda Volpe, in genere negli Usa si predilige un dosaggio quotidiano sui 160 milligrammi al giorno di acido acetilsalicilico, contro gli 80-100 che si prescrivono normalmente da noi. E in Italia si tende a fare più spesso uso di farmaci che proteggono la mucosa gastrica, proprio per limitare il rischio di effetti indesiderati.

Ancora Volpe: “Sul fronte del beneficio, va detto, ci sono comunque dati di grande interesse anche in prevenzione primaria: pochi giorni fa su Lancet è apparso uno studio che, grazie alla metanalisi di tre grandi ricerche cliniche (Tips-2. Hope3 e Polyiran), dimostra che la riduzione del rischio di morte cardiovascolare in chi assume acido acetilsalicilico a basse dosi insieme a statine e antipertensivo in una “polipillola” risulta inferiore del 47% rispetto a chi prende solamente i due farmaci senza Aspirina”.

La ricerca ha preso in esame oltre 18.600 persone, uomini e donne con età media di 63 anni, quindi teoricamente “fuori” dalla prescrivibilità in base alle indicazioni della task force americana. “Per infarti e ictus la riduzione del rischio è stata molto significativa. Per questo parlo di necessità di personalizzare le cure – conclude Volpe –. Senza dimenticare che la stessa Task Force quattro anni aveva consigliato l’impiego dell’Aspirina in prevenzione primaria sopra i 50 anni ed oggi propone un atteggiamento opposto. Ciò che conta è adattare la prevenzione ‘su misura’ al paziente, utilizzando le diverse armi che abbiamo per ridurre il rischio cardiovascolare, visto che queste malattie sono la prima causa di morte”.

Redazione Nurse Times

Fonte: la Repubblica

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