Alzheimer, i ricordi persi si potranno recuperare

I ricercatori hanno stimolato con successo il cervello dei topi tramite l’optogenetica, una tecnica rivoluzionaria in grado di  ‘riaccendere’ la  memoria. Questa metodica, che non è ancora stata sperimentata sull’uomo, spianerebbe la strada a nuove terapie per la malattia di Alzheimer.

I ricercatori del Riken-Mit Center for Neural Circuit Genetics di Cambridge, in USA, hanno dimostrato che nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer è possibile ‘ripristinare’ i ricordi svaniti. Questi, infatti, in realtà non si volatilizzano ma rimangono immagazzinati nel cervello ed è possibile recuperarli stimolando specifici neuroni nella regione dell’ippocampo. Gli studiosi affermano che il deficit di memoria che si manifesta all’esordio della patologia è dovuto quindi solo ad un problema nel recupero delle informazioni memorizzate, e non alla loro codificazione o al loro immagazzinamento.

L’esperimento è stato condotto sui topi: il loro cervello è stato stimolato da un particolare fascio di luce, che può accendere e spegnere a comando specifici neuroni che sono stati manipolati geneticamente per rispondere alla luce. Questa tecnica, rivoluzionaria e mai sperimentata sull’uomo, è nota come ‘optogenetica

’.
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Il recupero dei ricordi all’interno dell’encefalo avviene grazie alla stimolazione delle ‘spine dendritiche’, che connettono fra loro i neuroni e che nei malati di Alzheimer tendono a diminuire. L’esperimento condotto sui topi, però, dimostra che possono essere nuovamente stimolate a crescere. Queste, infatti, sottoposte al fascio di luce, ‘sbocciano’ come germogli facendo rivivere le esperienza e ridando così vita ai ricordi. Grazie ad un’intensa stimolazione, i ricercatori sono riusciti a riportare il numero di spine dendritiche dei topi malati allo stesso livello di quelli sani, riaccendendo così la loro memoria per sei giorni.

I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature e, come evidenziano gli stessi autori, ”rappresentano solo una prova di concetto” che può però spianare la strada a nuove possibili terapie. La tecnica, infatti, non può ancora essere applicata nell’uomo per la sua invasività. In futuro, però, potranno essere sviluppati nuovi metodi di stimolazione più precisi e meno invasivi per ottenere risultati molto vicini a quelli osservati nei topi.

Alessio Biondino

Fonti: ANSA

Redazione Nurse Times

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