UK, infermiere impianta pacemaker: ma è davvero oro tutto quel che luccica?

Essere infermiere nel Regno Unito, in buona sostanza, ha completamente perso l’aura eroica e mistica che in passato spingeva molte donne, in particolare, ad abbracciare la professione.

Nei giorni scorsi hanno suscitato molto clamore, in Italia, le immagini di Kate Whittock, prima infermiera del Regno Unito abilitata ad impiantare pacemaker in totale autonomia, potendo anzi formare altri colleghi ad eseguire la stessa tipologia di intervento

Molti commentatori, come sempre accade di fronte a queste notizie, si sono affrettati a piangere le italiche miserie di una categoria infermieristica ancora al palo delle competenze avanzate ed incatenata al supplizio del giro letti e delle cure igieniche dalle baronie mediche, sempre reticenti a concedere anche le più piccole briciole dei propri spazi di operatività e di potere.

Ma è davvero oro tutto quel che luccica, in terra di Oltremanica?

Fino a 5 anni addietro, tutti gli infermieri italiani lo avrebbero creduto: la presenza nostrana in terra d’Albione era ridotta ad una sparuta avanguardia di avventurieri ed esploratori, mentre la nostra conoscenza del nursing britannico era ferma ancora al vittoriano mito della Florence, su cui si imperniava buona parte della teoria dell’infermieristica studiata al primo anno.

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La storia ha poi mutato il suo corso ed in tempi recenti la Gran Bretagna è diventata meta di migliaia di infermieri dallo Stivale, giovani e meno giovani, ma tutti affamati di lavoro ed attratti dalle altrettanto mitiche prospettive di un lavoro straordinariamente retribuito e di una assunzione in tempi rapidissimi, non vincolata al superamento di sofferte selezioni in affollati palazzetti.

Si è allora scoperto che almeno quella delle assunzioni facili non era una leggenda, ma una realtà: bastava un’infarinatura di inglese e si aveva la possibilità di essere catapultati in un attimo nel magico mondo del più grande e antico Sistema Sanitario Nazionale esistente al mondo, l’NHS.

Che poi lo stipendio non permettesse di navigare nell’oro, beh, quello era un problema secondario, non solo perché, a conti fatti, era comunque assai meglio remunerativo di quello italiano, congelato da anni di stallo del contratto collettivo pubblico, ma anche perché ci si rendeva conto subito che bastava coprire uno o due turni di straordinario per vedere salire un bel po’ le cifre del conto in banca.

Certo, la lingua poneva parecchi ostacoli all’inizio, ma si sa che gli Italiani sanno adattarsi facilmente, sono resilienti, come si usa dire spesso.

La loro competenza teorica e la capacità tecnica nella pratica quotidiana, poi, mandavano in solluchero gli Inglesi, deliziati nel vedere professionisti così preparati, tanto da avviare continue campagne di reclutamento nel Belpaese.

Peccato solo che non tutti conoscessero così bene l’inglese.

L’NMC, l’organo di governo deputato alla tenuta del registro ed alla definizione degli standard professionali, decise allora di introdurre, a partire dal gennaio 2016, criteri volti a certificare adeguati livelli di competenza linguistica, richiedendo il superamento dell’esame IELTS, con un punteggio pari o superiore a 7, chiudendo di fatto, come vedremo, il rubinetto degli afflussi dall’Unione Europea.

Anche chi era arrivato prima della fatidica data del gennaio 2016 capiva però gradualmente che no, davvero, non era oro tutto quello che pareva luccicare.

Perché è vero che qui in UK, se vali e sei testardo, fai una carriera che in Italia puoi solo sognare, ma è vero anche che la competenza, specialmente tecnica, dell’infermiere medio è largamente inferiore a quella italiana.

Chiunque venga a lavorare in UK, sa benissimo che dovrà ottenere certificazioni su certificazioni, per essere abilitato ad eseguire prelievi ematici, incannulare, eseguire cateteri vescicali: abilità richieste dopo la laurea e di cui molti professionisti non sono affatto provvisti, neppure dopo anni di esperienza lavorativa.

Un paradosso che lascia a bocca aperta italiani, spagnoli, ma anche, ad esempio, filippini, abituati a conseguire le suddette competenze già durante il tirocinio di un corso universitario realmente abilitante.

È anche palese, inoltre, che il Regno Unito offre enormi opportunità poiché, prima di tutto, mancano, fin dalla nascita dell’NHS, le persone in grado di svolgere certi compiti.

Gli infermieri ed i medici, nella sanità britannica, sono sempre stati numericamente inferiori rispetto alla domanda.

Non è un caso che lo stesso Churchill, nell’immediato dopoguerra, andò a reclutare infermieri nelle ex colonie, come quelle caraibiche da cui in molti arrivarono con la nave Windrush, gli stessi infermieri (e non solo) che poi, però, ci si dimenticò di mettere in regola con la concessione della cittadinanza, avviando, dopo 60 anni, una vergognosa campagna di espulsioni di nonni, che avevano fatto nel frattempo nascere e crescere figli e nipoti nel Regno Unito.

In seguito, non sapendo più dove reclutare nuovi medici, si decise, già a partire dai primi anni novanta, di ampliare le competenze infermieristiche al punto da abbracciare vaste porzioni di quelle mediche; creando così nuove figure di infermieri in grado di diagnosticare patologie, di prescrivere farmaci, di eseguire interventi chirurgici “minori”, in modo da lasciare ai medici ed ai chirurghi tempo per formarsi su casi più complessi.

Gli è sempre andata bene finora, agli Inglesi.

Va dato atto, in effetti, che le statistiche e gli audit condotti hanno sempre dimostrato che le categorie di infermieri prima menzionate, ovvero i prescriber ed i practitioner, non hanno abbassato la qualità dei servizi, l’hanno anzi migliorata, riducendo gli eventi avversi e le infezioni, concedendo poi finalmente l’opportunità di rendere l’infermiere unico responsabile di numerosi percorsi assistenziali.

Insomma, l’estensione delle competenze apriva immensi orizzonti di gratificazione lavorativa, che tuttora motivano schiere di validissimi professionisti a progredire nella carriera del nursing anglosassone.

Tuttavia, il sospetto che, dietro tutto ciò, si celasse una furba strategia di politica sanitaria, mirata a compensare carenze organiche attraverso il reclutamento di medici e chirurghi “low cost” tra le fila infermieristiche, è più volte balenato alla mente degli addetti ai lavori e non solo.

L’impressione ha trovato qualche ulteriore conferma in questi ultimi due anni, quando, stavolta sulla categoria infermieristica e non su quella medica, si è travolta quella che gli stessi commentatori inglesi hanno definito una tempesta perfetta, che ha decimato le fila, guarda un pò, soprattutto degli infermieri europei.

I numeri rilasciati dal registro NMC, la settimana scorsa, parlano chiaro

Dalle oltre 9.000 nuove iscrizioni del 2015 si è infatti passati alle misere 800 dell’anno passato, con un numero di cancellazioni dal Registro salito a 4.000, nel 2017/18.

La certificazione IELTS e la severità dei requisiti richiesti per il suo conseguimento sono stati il vero Brexit – o la Caporetto ? – degli infermieri comunitari, prima ancora di quello vero, votato dal popolo britannico qualche mese dopo l’introduzione del test.

Il punteggio richiesto, pari a 7 in tutte le prove, è infatti appena superiore al livello medio di un madrelingua (6.9), tanto da aver condannato alla bocciatura anche australiani e neozelandesi.

Nel giro di soli 5 mesi, così, la Gran Bretagna ha smesso, forse per molti decenni a venire, di essere il Bengodi degli infermieri europei, in particolar modo di quelli italiani e spagnoli.

Non solo le incerte prospettive sulla permanenza nel Paese dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea nel 2019, ma soprattutto il durissimo scoglio del test IELTS hanno sferrato un colpo letale alle speranze di chi desiderava emigrare e fiaccato la resistenza di chi, già arrivato, si è visto relegato per mesi al limbo di un ruolo da HCA, l’OSS britannico, mentre falliva più volte l’esame.

In Italia, nel frattempo, molte Regioni canaglia sono tornate ad essere in regola con i conti, riaprendo concorsi pubblici che offrivano nuove speranze di un posto fisso in Patria: quindi, perché non provare a buttare via i libri di inglese, per aprire quelli di quiz?

Come se non bastasse, in aggiunta alle loro personali vicissitudini, gli infermieri italiani ed europei in generale sono stati costretti a condividere i recenti tempi di vacche magre di una categoria professionale, quella dei nurses britannici, duramente provata dalla scure di anni di Governo Tory.

Non è un mistero che l’intera governance sanitaria dei conservatori e del loro longevo Secretary, Jeremy Hunt, saldamente al potere da oltre 5 anni, venga ormai giudicata dai critici come mirata ad una occulta privatizzazione del venerato NHS.

Ecco che, allora, gli infermieri (ma anche i medici) paiono essere diventati, loro malgrado, i sarti chiamati a rappezzare, con sempre meno ago, filo e tessuto, un vestito ormai pieno di buchi, di un Sistema sanitario nazionale che attraversa una crisi mai così profonda dal dopoguerra.

Come ogni altro Paese economicamente progredito in Europa, anche la Gran Bretagna sta infatti invecchiando e la domanda di servizi sanitari, legata alle patologie cronico-degenerative, fa registrare ormai, di anno in anno, un costante abbattimento dei record nell’aumento della domanda dei servizi sanitari e delle prestazioni erogate.

Per un sistema sanitario, la cui ragione istitutiva consiste nell’erogare una assistenza di qualità e praticamente gratuita per tutti, una simile evoluzione del quadro demografico, unita all’aumento della litigiosità ed alle cause per malpractice contro i professionisti sanitari, rappresenta un nemico sempre più spietato, contro il quale si combatte con armi via via più spuntate.

  • Attese sempre più lunghe nei Pronto Soccorso (A&E), con continui sforamenti del rigido limite delle 4 ore, imposto dallo stesso Governo per il trattamento e la dimissione di almeno il 95% dei pazienti;
  • Pazienti bloccati in ambulanza per ore o parcheggiati sulle barelle nei corridoi, con scene che richiamano fin troppo quelle del Belpaese, a causa della mancanza di posti letto disponibili;
  • Interventi chirurgici bloccati o posticipati per lo stesso motivo o per la mancanza di personale;

…tutte quelle descritte sono immagini, ormai divenute consuetudine, di un NHS costantemente sull’orlo del collasso totale, soprattutto nei duri e lunghissimi mesi invernali, in cui si registra il picco dei ricoveri a causa delle epidemie influenzali.

I Governi succedutisi negli ultimi anni, quello di Cameron

prima e soprattutto quello della May in seguito, hanno manifestato una totale incapacità di prevenire simili emergenze, andando invece ad indebolire proprio l’elemento principale in grado di reggere l’intera impalcatura del Sistema sanitario: vale a dire, il personale medico ed infermieristico.

Il rinnovo (in peius) del contratto dei junior doctors nel 2016, segnato da continui scioperi; lo stop, nello stesso anno, alle bursaries, le borse di studio che finanziavano gli studi e retribuivano il tirocinio degli universitari inglesi, sostituite con prestiti bancari onerosi (loan); da ultimo a Marzo, una pay deal offer, una proposta di rinnovo del contratto collettivo pubblico, tanto acclamata dai sindacati ma avversata dalla categoria, in quanto registra aumenti stipendiali inferiori al tasso d’inflazione, sono gli ulteriori elementi della tempesta perfetta cui si accennava in precedenza e da cui fuggono tutti: medici ed infermieri.

Solo nel periodo 2017/18, i nurses che hanno chiesto la cancellazione dal registro NMC in più rispetto ai nuovi iscritti sono stati 4.000 (ben 9.000 l’anno precedente),  mentre il numero delle nuove richieste di iscrizione alle facoltà di nursing è crollato di oltre il 40% in due anni.

Essere infermiere nel Regno Unito, in buona sostanza, ha completamente perso l’aura eroica e mistica che in passato spingeva molte donne, in particolare, ad abbracciare la professione.

È però nelle modalità di rimpiazzo delle lacune organiche così formatesi (o create ad hoc?) che si è scoperta l’ultima, decisiva carta di un gioco già ampiamente intuito.

Mentre affermava, in una celebre intervista televisiva, che “i soldi (per finanziare l’NHS, n.d.A.) non crescono sugli alberi”, la May piantava invece intere foreste per varare programmi di reclutamento di centinaia di infermieri filippini in Irlanda del Nord, nel quadriennio 2016/2020, nonché per stipulare, in tempi recentissimi, un accordo simile con la Giamaica.

Insomma, ancora una volta si strizza l’occhiolino al Commonwealth, di cui l’attuale Governo palesemente anela a rinverdire gli storici fasti, mentre per gli infermieri europei non si è mai registrato uno straccio di intesa, sin dal giorno del voto pro Brexit.

Se poi sono stati sottratte, con una mano, le bursaries agli studenti universitari inglesi, con l’altra il Department of Health, guidato da Hunt, ha però varato onerosi programmi di formazione mirati all’introduzione di una nuova figura di supporto dell’infermiere, concedendole la stessa denominazione, ma senza imporre lo stesso percorso di formazione universitaria: il nursing associate, così simile, nell’articolazione delle sue mansioni, a quell’Oss specializzato ben conosciuto dalla sanità nostrana.

Non c’è dubbio che gli associates, collocandosi a metà strada tra gli infermieri d’Oltremanica ed i loro tradizionali collaboratori, gli healthcare assistants (HCA), andranno a colmare vuoti divenuti ormai endemici, soprattutto in molte realtà di corsia, dove si è già affacciato l’incubo del demansionamento e dove il burnout causa un elevatissimo turnover, con il ricorso costante agli agency nurses (veri e propri professionisti a chiamata) per coprire le emergenze sui turni di lavoro.

Tuttavia, una politica sanitaria, finalizzata ad introdurre sul mercato del lavoro decine di migliaia di nuovi professionisti non laureati, anche se formati con piani di non breve durata (biennali), autonomi nelle loro competenze ed iscritti al Registro NMC, ma con un ruolo definito sulla base di un vero e proprio mansionario, somiglia maledettamente ad un gioco al ribasso, ancora più spinto di quello che portò ad introdurre i primi Practitioner.

Perché non continuare a finanziare i corsi universitari, piuttosto?

Perché non estendere invece le competenze, già piuttosto flessibili, degli HCA, con corsi ad hoc?

Ma soprattutto, perché chiamarli nurses?

A pensar male si commette peccato, sosteneva un celeberrimo politico del dopoguerra, ma quasi sempre si indovina. E in questo gioco ci sono troppi indizi concordanti, per non indovinare la soluzione.

Va sottolineato, peraltro, che al suddetto gioco partecipano con entusiasmo anche i sindacati, di categoria e non, che hanno accolto con entusiasmo l’avvento degli associates.

Anche in questo caso, le riflessioni si venano di una punta di malizia ed il pensiero muove inesorabilmente verso immagini di mani che si fregano dinanzi ad orde di freschi tesseramenti.

Capofila della rappresentanza di categoria nel Regno Unito, come sappiamo, è l’RCN, il più grande sindacato infermieristico al mondo, forte di oltre 400.000 iscritti.

I suoi membri sono chiamati, in queste settimane, ad approvare o rigettare una proposta di contratto collettivo pubblico, che prevede, dopo 7 anni di sostanziale stallo, con un tetto di aumento fissato all’1% (il famigerato pay cap cui sono stati sottoposti tutti i dipendenti statali) incrementi minimi salariali del 6.5%, ma spalmati su tre anni, con differenze tabellari per le diverse fasce contrattuali (band) ed aumenti massimi – dichiarati – del 29%.

Ebbene, sono bastate poche ore dall’annuncio della proposta, da parte del Governo, per far montare sui social media una protesta inaudita degli infermieri britannici, con pubblicazioni di calcoli sugli effettivi incrementi, inferiori alle promesse, e conseguenti minacce di tessere stracciate.

Una baraonda mediatica, cui i rappresentanti si sono affrettati a rispondere rilasciando interviste ed inviando lettere agli iscritti, in cui balzava presto all’occhio un avvertimento sinistro: il dialogo con il Governo è chiuso, non sono previsti nuovi tavoli di trattativa, questo è il miglior possibile accordo che siamo riusciti ad ottenere, perciò, se rifiutate, si rischia di tornare al pay cap dell’1%.

O mangiate questa finestra, o saltate dalla finestra, insomma.

Conosciamo bene questa storia, non è vero, cari colleghi che state leggendo dall’Italia?

Tra le onde impetuose della tempesta perfetta, la nave dell’infermieristica britannica pare davvero in balia degli eventi ed in grado di reggersi a galla con molta difficoltà.

Ma allora, perché un infermiere italiano dovrebbe ancora essere tentato dall’idea di salirci e di espatriare nel Regno Unito?

È una domanda che non trova una risposta univoca, essendo legata alle motivazioni ed ai progetti di vita e di lavoro personali: in altre parole, equivarrebbe a domandare perché si dovrebbe abbracciare la professione infermieristica, oppure perché lo si dovrebbe fare in Italia; i fattori negativi precedentemente snocciolati potrebbero benissimo non incidere affatto sull’esperienza individuale nel proprio ambiente di lavoro.

Si potrebbe anzi beneficiare dei numerosi aspetti positivi della sanità britannica.

In primo luogo, il National Health Service è un sistema sanitario di fama leggendaria nel mondo, una macchina organizzativa immensa (conta 1.500.000 dipendenti ed è il quinto più grande datore di lavoro al mondo), che presenta molte rigidità e si rivela spesso farraginosa nei suoi meccanismi, ma è, in primo luogo, estremamente simile, nella sua architettura, al nostro SSN, che si è anzi ispirato, nella sua costituzione, proprio al modello inglese, denominato Beveridge dal nome del suo originario ideatore.

Innegabilmente, poi l’NHS mostra una straordinaria propensione ad introdurre e sperimentare infinite innovazioni cliniche e manageriali, che spesso coinvolgono e anzi pongono in prima linea proprio gli infermieri: provengono infatti proprio da Oltremanica il see and treat, il primary nursing, le figure del case manager o del bed manager, tanto per citare alcuni esempi.

L’infermiere è realmente protagonista, in UK, dell’organizzazione dei servizi sanitari, senza presentare quegli elementi di sudditanza verso la categoria medica così radicati nel Belpaese, tanto che anche nei consigli di amministrazione, ai più alti livelli, rappresentanti di entrambe le professioni siedono fianco a fianco; ciò si riflette, chiaramente, anche nel management dei singoli Trust, gli ospedali inglesi.

Nella pratica clinica quotidiana, inoltre, non mancano le paradossali richieste di certificazione all’esecuzione di un banale prelievo ematico, ma è vero anche che si può presto sfruttare la possibilità – vuoi per i meriti personali, vuoi per fortuna, vuoi per le carenze organiche – di acquisire skills, che i colleghi della madrepatria ancora lottano per vedere riconosciute, come l’impianto di pacemaker di cui si parlava nell’introduzione, l’estrazione di vene safene da impiegare per i bypass, l’esecuzione di iniezioni intravitreali.

Tutte competenze che si ottengono con corsi finanziati dal proprio Trust e che non si traducono solo nel “pezzo di carta” e nei complimenti di pazienti e colleghi, ma in avanzamenti di carriera ed economici.

Senza dimenticare che, pur volendo includere l’alto costo della vita di metropoli come Londra, lo stipendio del nurse britannico è ancora, definitivamente, superiore a quello di un collega italiano.

Insomma, un mondo contraddittorio, non esente da peccati e difetti, ma che ancora offre opportunità vastissime. Il fenomeno migratorio dall’Italia ha conosciuto consistenza solo negli ultimi anni, con una fiammata presto spenta dai test linguistici e dal Brexit.

L’afflusso, purtroppo disorganizzato e solo adesso in fase di primitiva strutturazione nei suoi caratteri associativi, ha aperto per la prima volta e per davvero la categoria infermieristica italiana al pianeta finora alieno del nursing anglosassone.

Proprio come in un contatto con una civiltà extraterrestre, l’impatto è stato scioccante, ma ha trasferito uno straordinario, in larga parte ancora sconosciuto alla massa dei colleghi italiani, patrimonio di conoscenze, che in Italia si sta però importando in porzioni infinitesimali, soprattutto per via dei sempre più gravosi problemi di casa nostra, ma anche del marcato disinteresse registrato finora dalle istituzioni rappresentative della categoria.

La speranza, tuttavia, è che questo patrimonio non venga perduto e che il flusso di infermieri in uscita e di ritorno dalla Gran Bretagna (così come da altri Paesi europei!), seppur ridotto nei numeri, non cessi mai e venga anzi controllato dalle stesse istituzioni, per restituire a beneficio di tutti il sacrificio e le fatiche dei tanti colleghi emigrati.

Redazione NurseTimes

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