“E’ innegabile che la situazione dei pronto soccorso in Italia sia difficile”, gravati come sono da problemi sempre più pressanti. Soprattutto di “organizzazione, a partire da una medicina del territorio insufficiente che porta a troppe richieste improprie”. A questo si aggiunge “il numero ridotto di medici, la mancanza di strumenti per proporre percorsi ai pazienti una volta risolto il problema acuto, la necessità di gestire non solo l’assistenza ma anche lo scontento dei cittadini”.
Tutto questo “porta con sé sicuramente un elevatissimo stress per gli operatori. Una situazione esplosiva, insomma. Ma, in ogni caso, si tratta di un lavoro bellissimo, l’espressione massima, a mio avviso, del mestiere del medico. Per questo, nonostante tutto, io resto. E chiedo, allo stesso tempo, più attenzione e tutele per questo settore “.
“I pronto soccorso – sottolinea Valli – rappresentano la porta d’accesso alle cure ospedaliere. Siamo abituati ad affrontare urgenze sanitarie e situazioni di emergenza inedite. Con il Covid, che ci ha sorpresi in una fase in cui già non mancavano difficoltà, abbiamo dovuto gestire problemi incredibili, tenendo sotto controllo, per di più, due diversi pronto soccorso: ordinario e Covid. E’ stato difficilissimo. Comunque, in generale, affrontare e risolvere problemi imprevisti fa parte di questo mestiere”.
Prosefgue Valli: “E’ il fascino della medicina d’urgenza, ma anche la fonte di stress. Adoro questo lavoro che non cambierei, non cambierò. E’ meraviglioso perché ha un ruolo chiave nella cura: è la massima espressione di quello che io considero sia la professione, non il guaritore ma colui che cura. E curare non significa necessariamente far guarire dalla malattia, ma farsi carico del paziente. Le persone che si rivolgono a noi lo fanno, al di là di tutto, con estrema fiducia. E’ la mia esperienza”.
Continua Valli: “Lo stress, ribadisco, fa parte di questa professione. Capita di dover gestire un afflusso improvviso. Ma se ogni giorno ci si ritrova a gestire 40 barelle per ore e se i numeri non scendono mai sotto la soglia critica, lo stress diventa esplosivo. Questo, seppure non accade nella mia struttura, grande e articolata emerge sempre più spesso nei racconti dei colleghi in diverse aree del Paese”.
Non sorprende, dunque, che il “numero di medici che sceglie di fare l’urgentista si sia ridotto”. A complicare tutto, in un “circolo vizioso”, abbiamo “una medicina del territorio che funziona poco, che non filtra gli accessi impropri”, mentre sul piano socio-sanitario “c’è spesso il vuoto”.
E sarebbe meno pesante anche se ci fossero “gratificazioni per gli operatori, non solo in termini di soldi ma anche di tempo, di fruibilità delle ferie, ma soprattutto di prospettive professionali stimolanti”, suggerisce Valli. E aggiunge: “Per esempio, personalmente, la possibilità di gestione della formazione mi ha molto motivato. Ma sarebbe utile anche usare le nostre esperienze per la ricerca nel campo dell’emergenza. Molti strumenti ci arrivano da studi fatti da chi non lavora in pronto soccorso e non conosce fino in fondo le criticità, come la necessità di seguire più pazienti contemporaneamente”.
Avere una mobilità e stimoli nell’attività, infatti, “è fondamentale rispetto alla riduzione della pressione psicologica e alla fatica”. Conclude Valli: “Una cosa è fare i turni a 30 anni, un’altra a 60 anni. Non è pensabile che un medico rimanga a fare le notti sveglio sei volte al mese dopo 30-35 anni di attività, come se avesse cominciato il giorno prima. Diventa molto logorante, e un po’ spaventa non vedere una prospettiva reale e concreta di cambiare un po’ il proprio tipo di attività nel tempo. Una maggiore attenzione da parte dei decisori politici e istituzionali permetterebbe di far sentire meno soli i medici di emergenza”.
Redazione Nurse Times
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