Dopo mezzo secolo di onorato servizio l’indice di massa corporea, la formula matematica più utilizzata al mondo per valutare il peso corporeo di uomini e donne, inventata nell’800 dal matematico belga Adolphe Quetelet, potrebbe andare presto in pensione o almeno essere affiancata da altri parametri.
A chiedere la revisione delle linee guida italiane, alla luce delle recenti modifiche delle linee guida americane, sono gli esperti della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) in occasione del congresso nazionale, sulla base di un recente studio americano presentato al meeting annuale dell’Endocrine Society, appena chiuso a Chicago.
“Secondo i dati della ricerca l’utilizzo esclusivo del BMI porterebbe a classificare erroneamente come non ‘obesi’ milioni di americani perché basare la diagnosi di obesità solo su questo parametro biometrico, espresso come il rapporto tra peso e altezza, conduce a sbagliare metà delle diagnosi e a sottovalutare il peso nel 53% dei casi e, di conseguenza, a trascurare interventi terapeutici e cambiamenti nello stile di vita necessari per la salute – dichiara Anna Maria Colao, presidente SIE e ordinario di Endocrinologia all’Università Federico II di Napoli –. Per questo gli specialisti della Società Italiana di Endocrinologia propongono di integrare il BMI con altri parametri, in particolare con la valutazione del grasso viscerale tramite la misura del giro vita e la stima della composizione corporea misurata dal plicometro”.
“Quando poi i ricercatori hanno aggiunto alla valutazione con il BMI anche solo il parametro relativo alla circonferenza della vita le valutazioni errate si sono ridotte del 23% – sottolinea Colao –. In pratica, una volta considerati entrambi i criteri, BMI e circonferenza vita, solo il 31% delle persone obese è ‘sfuggito’ alla diagnosi. Il principale limite del BMI è che non distingue tra acqua, massa ossea, massa muscolare e tessuto grasso né tra accumulo di grasso viscerale, la cosiddetta ‘pancetta’, e grasso sottocutaneo, non tenendo così conto dell’influenza di genere”.
“Le donne – precisa l’esperta – hanno infatti più grasso sottocutaneo rispetto agli uomini, localizzato su fianchi e cosce, che è meno dannoso per la salute rispetto al grasso addominale, che i maschi accumulano più facilmente nelle sezioni centrali del corpo. È evidente dunque che utilizzare un unico parametro che non tiene conto di queste sostanziali differenze porta sia a sovrastimare erroneamente l’obesità nelle donne che a sottovalutarla negli uomini, con una pericolosa distorsione della comprensione da parte dei medici del rischio di malattia e mortalità legate all’obesità”.
“Da diversi anni gli esperti si interrogano sull’affidabilità e l’accuratezza del BMI nel classificare le persone obese – sottolinea Colao –. Utilizzare la DEXA come strumento di screening è poco realistico perché economicamente insostenibile. Per questo gli scienziati sono impegnati da tempo nella ricerca di nuovi criteri semplici, economici e più attendibili. Questo non significa che dobbiamo rinunciare definitivamente al BMI, che può avere un certo grado di affidabilità e utilità negli studi di popolazione per lo screening dell’obesità”.
E ancora: “Ma è importante che gli specialisti comprendano i limiti dell’utilizzo del BMI nel singolo individuo e che a questo parametro ne vengano affiancati altri. Il BMI, insieme alla misura del grasso viscerale e della massa grassa relativa, potrebbe ridurre gli errori, consentendo una più precisa individuazione delle persone obese”.
Redazione Nurse Times
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